venerdì 31 gennaio 2014



CHIUDERE IL BAR DELLA POLITICA PER APRIRE LE SCUOLE DELLA CULTURA


Ieri sera,  presso l’aula del Consiglio comunale di Siracusa, si è svolto un incontro teso a sensibilizzare i cittadini sulla necessità che la nuova legge elettorale possa includere le preferenze quali espressione della democrazia partecipata.
L’incontro, organizzato dai consiglieri comunali Pappalardo e Firenze, concludeva la fase del digiuno che gli stessi hanno attuato per giorni in favore del ripristino delle preferenze.
Ad introdurre i lavori sono stato io stesso con un breve excursus sui sistemi elettorali e Dario Genovese sulla partecipazione diretta dei cittadini.
Un tema di così vasta portata non poteva esaurirsi nell’arco di tempo di 10/15 minuti dell’intervento, ma necessitava di una maggiore possibilità di esposizione e di un auditorio più introdotto al tema stesso.
L’impressione che ho avuto è che ormai la gente non segue nessun tema se non quello che ha nella propria testa e gli incontri sono solo un pretesto per poter dire quello che si vuole.
Pur partendo tutti da una breve introduzione su quello che doveva essere il tema si finiva sempre per trattare altri argomenti estemporanei e contradditori perché, a mio avviso, era forte la voglia di dire qualcosa.
I partecipanti, anche se scusati dal posto non facilmente raggiungibile e dal tempo non molto accattivante erano di gran lunga inferiori all’importanza del tema stesso.
Mancavano soprattutto i rappresentanti politici e delle istituzioni che avrebbero potuto raccogliere gli spunti del dibattito per inserirli nel contesto della loro azione politica.
Ecco così che ognuno ha parlato del problema che gli stata più a cuore magari dicendo tutto ed il contrario di tutto e citando aspetti dei sistemi elettorali, soprattutto stranieri, da fare accapponare la pelle.
Così come il consigliere, il giornalista, un tecnico del governo regionale, un assessore, un vecchio politico, un rappresentante di movimenti ed altri, hanno parlato di ciò che gli interessava e basta.
Un bel bar della politica.
Ho anche notato che, da un po’ di tempo a questa parte, si fanno citazioni di politici della vecchia repubblica, va molto di moda  Aldo Moro, senza che si conosce effettivamente il pensiero politico del personaggio.
Ma al tempo degli spot pubblicitari e della mancanza di un progetto politico strategico di aggregazione e di divisione, tutto fa brodo.
Che cosa ne  deduce:
Che la gente non è abituata a discutere in quanto non ha momenti di aggregazione politica nelle opportune sedi partitiche.
Che ogni occasione è utile per liberarsi di ciò che cova dentro di se in modo confusionario ripetendo gli slogan televisivi dei partiti o dei giornali e non mette niente di se.
Che bisogna ripartire da una nuova cultura politica perché non è possibile che la Democrazia abbia solo le vesti dell’efficienza e della stabilità.
Non possiamo dar vita ad un corpo senz’anima che possa fare a meno della strategia politica basata su un progetto culturale e da una visione della società alla cui realizzazione bisogna lavorare perché se è vero che non esistono più le ideologie del secolo scorso, è anche vero che una cultura politica non può non essere alla base dell’agire politico.
Di positivo vi è  il serio tentativo di due consiglieri di aggregare consensi su un tema importante della partecipazione democratica che sono le preferenze, non tanto come fatto tecnico – elettorale, ma come strumento per operare la scelta dei cittadini  in modo democratico e partecipato.
Pippo Bufardeci
Siracusa 31.01.201

domenica 26 gennaio 2014

IN LIBRERIA O PRESSO L'EDITORE MORRONE DI SIRACUSA


venerdì 24 gennaio 2014

NUOVA LEGGE ELETTORALE, NON TUTTO E’ ANCORA RISOLTO





La legge elettorale, proposta dal trio Renzi, Berlusconi ed Alfano, sta lentamente iniziando il suo percorso parlamentare passando attraverso  l’esame delle commissioni parlamentari affari costituzionali e preparandosi ad affrontare tutta una serie di emendamenti già annunciati da molti partiti e gruppi parlamentari.
Si tratta ancora di una legge che non raccoglie i consensi politici dei partiti così detti minori e suscita perplessità relativamente al concetto della scelta dei parlamentari attraverso l’unico modo democraticamente possibile che è quello delle preferenze.
Sul piano politico si evidenzia che non è stato digerito l’accordo Renzi – Berlusconi soprattutto per la filosofia che ha ispirato inizialmente i due protagonisti che era tesa ad eliminare i piccoli partiti e portarci dal bipolarismo al bipartitismo.
Difatti l’applicazione pedissequa della normativa spagnola avrebbe portato a questo.
Come si sa il sistema spagnolo prevede piccoli collegi elettorali con candidati che si sfidano per un solo seggio disponibile assegnato a chi vince. Chi perde non ha la possibilità, come partito, di recuperare i voti a livello nazionale perché ciò non è consentito.
Quindi si può creare il caso di una terza forza, anche consistente  sul piano complessivo che, non vincendo in nessun collegio elettorale non prende nessun deputato.
Per assurdo può succedere che anche il secondo partito, risultando tale in tutti i collegi, non può avere alcuna rappresentanza parlamentare magari ottenendo un distacco minimo sul piano complessivo dei voti a livello nazionale.
Dobbiamo dare atto che, con l’inserimento di Alfano nella trattativa sulla legge elettorale, sono stati inseriti correttivi importanti anche se non ancora del tutto sufficienti.
L’avere inserito il ballottaggio di coalizione ha permesso di uscire dal concetto bipartitico per inserire quello delle bi-coalizioni che obbligano i partiti maggiori ad allearsi con altri schieramenti e quindi a salvaguardare la presenza di questi partiti che sarebbero stati esclusi dalla prima stesura del testo.
Ciò avviene attraverso la diminuzione della soglia di sbarramento dall’8 al 5 % se coalizzati.
Queste due quote non sono di per sé basse per cui determinano, nella situazione attuale di frammentazione del quadro politico, l’esclusione di quasi tutti i piccoli partiti se non si coalizzano fra loro secondo le proprie affinità politiche.
Sono difatti in corso proposte per abbassare queste due quote di sbarramento.
Ma resta sempre in piedi il nodo della scelta diretta dei deputati da parte  dei cittadini elettori.
Lo stesso Alfano, pur accettando la proposta di legge elettorale nel suo complesso, ha dichiarato che si riserva di presentare emendamenti parlamentari tesi all’introduzione delle preferenze.
La stessa cosa hanno incominciato già a fare quasi tutti gli altri partiti presentando propri emendamenti in fase di esame presso le commissioni affari costituzionali.
Secondo me vi è un aspetto poco evidenziato relativo all’assenza delle preferenze.
E’ vero che la Corte costituzionale, rimanendo nel vago, ha detto che non è accettabile un parlamento di nominati, ma non ha detto chiaramente come orientarsi.
A mio avviso doveva chiaramente dire che la scelta del parlamentare, o di gran parte di loro, è un fatto costituzionalmente irrinunciabile anche perché crea elementi ulteriori di incostituzionalità il diverso trattamento giuridico fra candidati della stessa lista che partecipano alla stessa competizione.
Difatti i candidati di una lista, che sono messi in una posizione che non può assicurare la elezione rispetto a quelli che stanno nei primi posti, non possono concorrere con la stessa possibilità degli altri di essere eletti.
Ragione per cui, a mio avviso, viene loro leso il diritto costituzionale dei cittadini di essere uguali difronte alla legge e, nel caso specifico, alla legge elettorale.
Se dovessi fare una proposta riterrei conducente quella che si usa per la scelta degli assessori nelle giunte comunali dove la metà degli assessori viene  scelta fra i consiglieri eletti e metà fra cittadini non eletti.
Quindi metà  candidati, nella stessa lista, dovrebbero essere eletti con le preferenze e metà secondo l’ordine di presentazione nella lista stessa.
Non mi soffermo come arrivarci sul piano tecnico, ma l’idea potrebbe risolvere i problemi di rappresentanza importanti che hanno sollevato tutti i partiti minori, ma anche il presidente del Consiglio.
Infine ricordo a chi, politico o non, vuole approfondire la conoscenza tecnico – giuridica dei sistemi elettorali dall’europeo al comunale,  che in libreria può trovare il mio nuovo libro sui sistemi elettorali. 

Pippo Bufardeci
24.01.2014

sabato 18 gennaio 2014



VENT’ANNI FA MORIVA LA DC MA NON HA LASCIATO EREDI
Editoriale di Claudio Sardo
Su l’Unità  one - line di oggi 18-01.2014


Era il 18 gennaio 1994. Mino Martinazzoli annunciò la ri-fondazione del Partito popolare nella sede storica dell’Istituto Sturzo, a Palazzo Baldassini. Poco distante, nell’hotel Minerva di Roma, la mattina di quella stessa giornata, Pier Ferdinando Casini, Clemente Mastella e Francesco D’Onofrio avevano dato vita al Ccd. La Democrazia cristiana – il partito che aveva governato per quasi mezzo secolo, guidando la ricostruzione, l’industrializzazione, la crescita democratica del Paese e poi anche la degenerazione del potere – chiuse così i battenti. Era appena iniziata la campagna elettorale che avrebbe portato Berlusconi al clamoroso successo. I referendum di Segni avevano imposto la svolta maggioritaria. E il ciclone di Tangentopoli aveva azzerato un’intera classe dirigente. Tuttavia entrambe le filiazioni della Dc, benché in compitizione tra loro, andavano incontro alla sconfitta.
Sì, perché anche Casini, che pure accettò da subito la sfida bipolare e uscì dalle urne del ’94 tra i vincitori, si ritrovò in posizione subalterna rispetto a quel Berlusconi, che alla Dc aveva strappato tanti elettori, ma della Dc non aveva neppure un cromosoma. La convivenza col Cavaliere è durata dieci anni: poi la rottura ha ulteriormente marcato lo spostamento a destra e la deriva populista di quella che fu la rappresentanza dei «moderati» italiani.
La sconfitta più significativa fu comunque quella di Martinazzoli. Lui, generosamente, interpretò la ri-costituzione del Ppi come «la terza fase» del cattolicesimo democratico. Quella «terza fase» che Aldo Moro aveva intravisto, auspicato, ma che venne travolta dalla mano assassina dei brigatisti. Il moroteo Martinazzoli sperò che in quei primi anni Novanta dal male della corruzione, dal blocco politico del Caf (Craxi-Andreotti-Forlani), dalla crisi di sistema in cui il Paese era sprofondato dopo l’adesione al trattato di Maastricht, potesse scattare una redenzione. I valori «buoni» della Dc, in fondo, avevano vinto e l’economia sociale di mercato era anche per la sinistra la sola difesa disponibile a fronte del liberismo arrembante: perché da quelle radici non poteva nascere una nuova pianta? Peraltro, il ritorno al Ppi era anche un riconoscimento della novità del Concilio: l’unità politica dei credenti non aveva più un fondamento teologico e la proposta «popolare» si sarebbe misurata con il pluralismo delle opzioni politiche nella stessa Chiesa.
Il maggioritario nostrano, però, prima ridusse il Ppi a una terza forza minoritaria, poi lo costrinse alla scelta: o con i progressisti o con Berlusconi. E il paradosso maggiore è che i cattolici che scelsero più convintamente la sinistra, lo fecero accettando l’oblio della raffinata cultura costituzionale della Dc, di quella capacità di usare le istituzioni per includere, di concepire la mediazione come valore, di distinguere i poteri per evitarne l’eccessiva verticalizzazione. La Dc non sarebbe stata se stessa senza la filiera di giuristi che va da Costantino Mortati a Leopoldo Elia. Non avrebbe avuto i tratti originali che abbiamo conosciuto con De Gasperi, con Fanfani, con Moro e con lo stesso De Mita, il quale compì l’ultimo serio tentativo di rigenerazione democristiana, pur dentro l’impraticabile blindatura pentapartita.
La cultura costituzionale
La spinta forte dei cattolici democratici verso l’Ulivo fu quella dei referendum e della «religione» del maggioritario. In fondo in Romano Prodi c’era uno spirito di rottura non dissimile da quello di Mario Segni: la percezione di una necessaria, radicale innovazione nelle forme della competizione politica. Un bipolarismo quasi anglosassone, che non solo punisse (giustamente) l’occupazione dei partiti nella società ma anche (discutibilmente) la responsabilità dei partiti nella formazione dei governi e nella vita delle istituzioni.
La Dc nasce, prospera, dà il meglio di sé nella società divisa dalla Guerra fredda, nell’Italia che si emancipa dalla povertà, nel sistema proporzionale, nella Chiesa che protegge l’unità politica dei credenti. Le gabbie dei blocchi sociali le assegnano la rappresentanza dell’elettorato conservatore e anti-comunista, ma la Dc tenta sempre di superare se stessa e si concepisce sin dalle origini come «un centro che guarda a sinistra». Il no di De Gasperi al Papa che gli chiedeva di aderire all’«operazione Sturzo» è un vero e proprio atto fondativo della Dc, della sua laicità e della sua fedeltà alla Costituzione. In fondo De Gasperi si rifiutò di fare cio che Berlusconi fece quarant’anni dopo: un’alleanza senza confini a destra.
Ovviamente la Dc ebbe diversi sbandamenti a destra: negli anni 50 fino alle pagine nere del governo Tambroni, poi ancora negli primi anni 70. La sua vita interna è stata piena di battaglie. Spesso decisive per il Paese. Era il partito della nazione. Nel bene e nel male. E con Moro, che rispettava il radicamento e la cultura nazionale del Pci, arrivò fino a tentare un salto democratico non compatibile con i rapporti di forza internazionali del tempo.
Oggi non sentiamo più alcuna nostalgia della Guerra fredda, né dell’unità politica dei cattolici. La Dc non ha più ragion d’essere. Eppure quella cultura personalista sedimentata nei corpi intermedi e nella Costituzione, quel senso del limite della politica e dei poteri, quell’idea delle istituzioni come mediazione (e non negazione) dei conflitti, sarebbe oggi utile. Anche a sinistra. Se il Pd vuol essere il partito della ricostruzione nazionale, non ha interesse ad azzerare la storia. Il nuovismo è effimero: la parabola di Berlusconi l’ha dimostrato. Non è un caso che, seppure la Dc non abbia veri eredi, i leader più giovani ed emergenti abbiano una discendenza proprio da quella storia.


Trovo questo articolo molto interessante soprattutto perchè si tratta di un editoriale di un giornale, quale l'Unità che, rappresentando il partito comunista, ha sempre combattuto l'azione, la storia e la presenza della Democrazia Cristiana nel contesto politico nazionale.
Riconoscere che questo partito ha avuto un ruolo importante e determinante per l'Italia e per la politica italiana e evidenziando che la cultura del fare vera politica della Dc è ancora presente nei maggiori giovani esponenti politici nazionali, è un atto di verità storica da apprezzare. Come dire che la Storia mette sempre le cose al loro posto superando la propaganda, la menzogna e la convenienza. ( Pippo Bufardeci)


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lunedì 13 gennaio 2014

LA GRAVITA’ DELLA CRISI NECESSITA DI CONVERGENZE INDIVIDUALI E DI GRUPPO





Una crisi economica di grandi e gravi dimensioni come quella che sta ancora vivendo gran parte del mondo industrializzato non può risolversi in modo rapido ed indolore.
Ha bisogno di tempo, di decisioni, di strategia, ma soprattutto necessita di uomini ed istituzioni che remino tutti dalla stessa parte.
Se la casa brucia è necessario spegnere tutti insieme il fuoco per salvare quanto più possibile in attesa poi di dividerci su cose concrete e non sulle macerie del fuoco.
L’impressione che la classe dirigente di questo Paese, non solo quella politica, invece dà, è quella di una infinita conflittualità basata sulla proposta di ricette taumaturgiche e personali senza un confronto con ciò che propongono gli altri.
Ciascuno di coloro che hanno un pulpito da cui parlare è convinto di essere il solo depositario della verità e l’unico capace di risolvere i problemi da solo.
Tutto questo ha ingenerato una mentalità che tende a privilegiare l’individuazione di un leader, magari il più facinoroso o ammaliatore, da mettere a feticcio della soluzione dei problemi individuali o di gruppo.
Ciò senza considerare che la complessità dei problemi stessi, ma soprattutto la situazione di fragilità politica in cui ci dibattiamo da alcuni decenni, dovrebbero spingere verso la ricerca di soluzioni condivise con l’impegno di più soggetti.
Il leaderismo  non risolve  i problemi così come la non partecipazione dei cittadini alle scelte collettive tarpa le ali alla democrazia.
Ecco perché riteniamo che bisogna fare ogni sforzo affinché si crei un periodo di stabilità politica e di Governo che possa essere una concreta piattaforma su cui costruire il futuro prossimo della nostra Nazione con il più ampio contributo possibile da parte di tutti.
Ecco perché crediamo che le pur legittime ambizioni personali devono essere messe da parte nel momento in cui confliggono con quelle  reali dell’intera collettività.
Auspichiamo quindi che l’incontro recente fra Letta e Renzi possa dare i suoi frutti nella logica della stabilità politica dell’attuale Governo e nella individuazione seria e non propagandistica della ricerca delle soluzioni almeno ai più gravi problemi che assillano i cittadini italiani.
Sarebbe difficile comprendere la continuazione, o peggio, la radicalizzazione di una  inspiegabile conflittualità fra il Governo a guida Letta, di estrazione del PD, ed il segretario dello stesso partito che ha il dovere di sostenerlo e condurlo alla attuazione delle strategie più utili per tutti i cittadini.
Allora ben venga un serio confronto  fra tutti i soggetti interessati che elaborino, come si sta tentando di fare, un programma fattibile e condiviso che, in un tempo stabilito e limitato,  veda remare tutti dalla stessa parte che  deve necessariamente andare verso il bene comune.

 Pippo Bufardeci
13.01.2014