venerdì 6 gennaio 2023

 

LA FESTA DEL VINO, STORIA E TRADIZIONI A PACHINO

IL MIO INTERVENTO PER PERBACCO DEL 05/01/2023


INTRODUZIONE 

Bisogna essere grati ed apprezzare il lavoro che ha svolto e continua a svolgere il gruppo di amici pachinesi che, con l’associazione “Vivi Vinum Pachino”, lavora per riportare alla sua giusta valenza il ruolo sociale, storico, economico e identitario che il vino ha rappresentato, negli anni, per il comune di Pachino e per i suoi cittadini.

L’organizzazione della festa della vendemmia, di quella di San Martino purtroppo osteggiata dal forte maltempo e di PerBacco non è quindi un fatto solo di aggregazione folcloristica o di cittadini in una logica di divertimento.

Essa ha la fondata ambizione di essere momento di riappropriazione e di riproposizione di una identità economica che ha caratterizzato il nostro passato, ma che può essere ancora valida per le nuove generazioni se si saprà coniugare con la nuova realtà e la si saprà immettere in un nuovo contesto sociale, turistico e storico che possa dare un contributo notevole nell’ambito economico ed occupazionale del nostro paese.

Ecco allora che il ricordo attraverso la festa si trasforma in semenza di sviluppo e di aiuto per la crescita di nuove generazioni che possono trovare lavoro e riscontro economico personale per una vita più dignitosa e per un contesto sociale comunale più inserito nelle dinamiche serie di sviluppo duraturo dell’intero territorio.

Gli amici dell’Associazione Vivi Vinum Pachino hanno le idee chiare su ciò che è necessario fare e vanno quindi sostenuti dai cittadini e dalle istituzioni perché si  concretizzi un disegno strategico di sviluppo che, partendo dal vino, può rigenerare un’intera economia locale.

Per concretizzare penso che al vino vada aggiunta la valorizzazione del contesto storico e delle nostre tradizioni con percorsi che valorizzino i nostri numerosi palmenti che ancora si trovano nel perimetro urbano e si dia la dignità e l’importanza che merita al Museo del Vino.

 Bisogna costituire i percorsi enogastronomici che ripropongano la bontà della nostra cultura gastronomica;

Con la disponibilità delle varie cantine locali bisogna incrementare la degustazione vinicola;

Riappropriamoci del marchio Vino nero Pachino e Vino Rosso Pachino che caratterizzi seriamente la provenienza territoriale che è quella del territorio pachinese e del lavoro svolto dai contadini e dai produttori di Pachino anche in zone a coltura vitivinicola che, pur non facendo parte del territorio di Pachino, sono stati curati, lavorati e resi produttive dai pachinesi.

Bisogna anche capire e fare capire ai nostri amministratori ed ai cittadini l’importanza strategica sul piano culturale e di sviluppo del Palmento Di Rudinì che non può recitare il ruolo, sul quale si sta avviando per colpevole apatia, di retaggio del passato.

Infine, e non per ultimo, impostare una sinergia fra la produzione locale e la vendita del ciliegino con la produzione e la vendita del vino di Pachino. Si potrebbe iniziare con una pubblicità combinata per cui le cassette del ciliegino potrebbero evidenziare, con una scritta, un riferimento al nostro vino e le confezioni del vino un riferimento al ciliegino.

Bisogna lavorare insieme, sinergicamente ed abbandonare i residui retaggi del pachinese individualista che, nei nostri tempi, non ha generato sviluppo né sociale né culturale né economico.

Ritengo che la strada tracciata dagli amici di Vivi Vinum Pachino sia la migliore possibile per cercare di cambiare in meglio la prospettiva di sviluppo del nostro paese e dei suoi cittadini per cui, tutti insieme, rimbocchiamoci le maniche, facciamo finalmente squadra e collaboriamo seriamente affinché questo progetto ambizioso, degli amici di Vivi Vinum Pachino e delle cantine aderenti possa vedere la luce nel più breve tempo possibile.

 

Di Rudinì

Non posso ulteriormente non evidenziare, sia pure brevemente, il forte rischio che sta correndo il palmento Di Rudinì di rimanere un rudere come i tanti che si trovano nel nostro territorio frutto dell’incuria e dell’incapacità di noi pachinesi di essere propositivi.

Non voglio lanciare anatemi contro questa amministrazione o altre che hanno gestito il nostro comune, ma soltanto favorire la volontà espressa da molti, che hanno lavorato anche gratuitamente, per rendere dignitoso questo importante monumento storico – sociale per farlo diventare l’emblema del lavoro dei nostri nonni e dei nostri padri in un nuovo contesto di vitalità culturale, turistica, economica ed identitaria.

Non mi preme nemmeno ricordare che il Di Rudinì ristrutturato e consegnato al patrimonio comunale è il frutto dell’esito positivo del PIT 9 denominato ecomuseo del mediterraneo con finanziamenti europei in un contesto di sinergia con i comuni della zona sud e con un lavoro costante da parte dell’amministrazione Adamo di cui ero l’assessore di riferimento dell’ecomuseo occupandomi di sviluppo economico e scegliendo, d’intesa con il sindaco Adamo, proprio il vecchio palmento Di Rudinì quale progetto da realizzare come comune di Pachino.

Voglio solo dare voce a quanti, cominciando proprio dall’associazione Vivi vinum Pachino ed altri, hanno dato la loro disponibilità a dare supporto all’amministrazione comunale per rivitalizzare con urgenza questo patrimonio storico che appartiene a tutta la comunità pachinese.

Ciò anche in considerazione della motivazione banale che sembra stia alla base della chiusura che è l’assenza di corrente elettrica per mancanza di pagamento della bolletta.

Naturalmente non facciamo nostra l’altra motivazione che viene sussurrata in paese che vedrebbe qualche associazione della provincia di Catania interessata a svolgere ruoli di gestione di vari servizi di competenza comunale fra cui forse anche la gestione del Di Rudinì.

Suggerisco all’amministrazione comunale di fare chiarezza su questo importante problema e di coinvolgere le associazioni disponibili di Pachino e quanti pachinesi possono dare il loro contributo affinché con la maggiore trasparenza possibile ci si riappropri di questo importante bene comune.  

 

 ADESSO PARLIAMO, IN MODO RAPIDO, MA SPERO ESAUSTIVO, DELLA TRADIZIONE STORICA DELLA VENDEMMIA E DEL VINO DI PACHINO

 

Possiamo dire che la vendemmia pachinese iniziava già la sera dell’ultima domenica della festa della Madonna quando, alla fine dei fuochi d’artificio della mezzanotte, si sentiva sempre una voce, fra la gente, che diceva: Ora pajativi i debiti.

Sembrava una frase di scherno, ma era la visione plastica che intercorreva fra le famiglie pachinesi ed il rito della vendemmia inteso come inizio di speranza o di future pene per le famiglie e per un intero paese.

Tutta la vita sociale, economica, lavorativa di un paese era legata all’unica fonte di reddito, annuale, che caratterizzava il quadro economico di un intero territorio.

Ogni cosa veniva rinviata a dopo la vendemmia.

Si pagava il sostentamento di un intero anno dopo la vendemmia, ci si sposava dopo la vendemmia, le attività onerose si rinviavano dopo la vendemmia, si rimaneva in paese o si emigrava dopo la vendemmia.

Ma adesso vediamo come si svolgeva, di fatto, la vendemmia.

 

LA CIURMA

La sera prima della raccolta dell’uva, per formare la ciurma dei raccoglitori, ci si recava nella piazzetta del mercato dove sotto i lastroni di marmo dei banconi del pesce, si assiepavano robuste braccia di braccianti locali ed altre venute dai paesi vicini per partecipare ai lavori della vendemmia

I proprietari delle vigne da vendemmiare guardavano ad uno ad uno quella mercanzia da lavoro e scrutavano muscoli, corporatura e capacità dinamiche che ne avrebbero fatto un buon “vignignaturi”.

Venivano scartati quelli troppo magri o troppo grassi nonché quelli dall’aspetto malandrino o “sciarrino” che, sicuramente, sarebbero stati incontrollabili ed avrebbero creato scompiglio con gli altri abbassando così la capacità lavorativa.

Era d’uso che per tutto il periodo della vendemmia intere famiglie si trasferissero dai paesi vicini con attrezzature, carri e masserie per partecipare al guadagno del lavoro della “ vignigna “ con grandi sacrifici dormendo sotto i carri o negli angoli delle case senza alcuna sicurezza igienica e spesso sottoposti ai capricci del tempo.

Gli uomini, ma anche le donne, venivano “scartate” scelte ad uno ad uno fino al completamento del numero sufficiente di persone che avrebbero costituito il gruppo “la ciurma“ necessaria alle esigenze del contadino o del caporale che assoldava gli uomini.

Quelli scartati potevano solo sperare di essere chiamati per qualche caso di emergenza da parte di qualcuno che aveva la necessità di sostituire qualche lavoratore non più disponibile o di svolgere i lavori della vendemmia con una certa fretta o perché aveva avuto all’ultimo momento la disponibilità del palmento.

IL PALMENTO

Il palmento era importante che fosse disponibile nei giorni in cui l’esperto contadino riteneva si dovesse vendemmiare per la giusta maturazione dell’uva.

Sbagliare la giornata di vendemmia avrebbe comportato anche danni rilevanti per il raccolto e complicato le possibilità di vendita.

Non bisognava anticipare la giornata della vendemmia rispetto alla giusta maturazione dell’uva né si doveva differire di molto.

Poiché si trattava di un mosto o vino destinato ad avere una colorazione molto nera ed una corposità capace di tagliare vini meno dotati per rendere la soluzione idonea per rispondere alle esigenze del mercato, la vendita teneva presente alcune qualità organolettiche che erano rappresentate dalla gradazione alcolica e dalla quantità di zucchero presente nel mosto.

Più la gradazione alcolica era alta e nel giusto rapporto con il grado zuccherino e più alto era il prezzo che veniva pagato.

Difatti, nei locali della trattativa fra la domanda e l’offerta che venivano chiamati “ scagni “, il prezzo si stabiliva per grado alcolico e quello per la salma, ( unità di misura di vendita corrispondente a circa 96 litri ), era il risultato della moltiplicazione fra il prezzo di un grado ed il totale dei gradi che esprimeva quella partita di mosto.

Quindi la soluzione ottimale per i contadini era quella di avere un’alta gradazione con buona presenza di zucchero senza però che fosse a discapito della quantità prodotta.

Da qui se ne deduce che la scelta della giornata utile per effettuare la raccolta dell’uva diventava strategica ai fini del guadagno soprattutto se si era in presenza di una produzione abbastanza rilevante.

Però bisognava prenotare con largo anticipo l’utilizzo delle attrezzature del palmento per cui, con il consenso dei gestori del palmento, alcuni mettevano in atto delle azioni di furbizia tendenti a favorire gli amici, il proprietario degno di rispetto a discapito dei piccoli e poveri disgraziati senza alcuna tutela.

Fra queste furbate vi era quella di prenotare più volte il palmento ed in giornate diverse per potere poi scegliere quella più utile oppure dichiarare, da parte dei gestori, di avere esaurito tutta la disponibilità della settimana, ma lasciare dei giorni inutilizzati per le esigenze degli amici.

Se vi erano delle giornate non utilizzate si mettevano, all’ultimo momento, a disposizione di chi non aveva avuto la fortuna di essere iscritto nell’elenco ufficiale ed era così costretto a vendemmiare in base alla disponibilità del giorno e non del grado di maturità dell’uva.

LA GIORNATA DELLA VENDEMMIA

Dopo essersi alzati ancora con il buio della notte, finalmente gli attori della vendemmia arrivavano nella vigna che doveva essere vendemmiata.

Si incominciava la giornata con l’ammucchiata di un buon quantitativo di grappoli d’uva sui teloni che venivano stesi a terra nell’attesa di caricare i tini sui carri che avrebbero trasportato il tutto nei palmenti.

Non era consentito perder tempo ed i lavoratori, sotto il controllo dello sguardo vigile del proprietario o del capo ciurma incaricato della sorveglianza, si dividevano i filari di viti da vendemmiare ed incominciavano la raccolta dei grappoli che venivano posti in recipienti dette “cruvidduzzi” in quanto le più adatte per il trasporto fino al punto base di raccolta nei teloni o direttamente nella “tina” sopra il carro.

Questi recipienti, che erano di diverse dimensioni in base al tipo di prodotto da trasportare od anche dalle distanze da effettuare, avevano nomi diversi. Quelli di piccola capacità si chiamavano “crovidduzzi” di media capacità si chiamavano “cruveddi” e quelle ancora più grandi “cufini”.

Esse erano costituiti da un fondo intrecciato di verghe di ulivo da cui si alzavano delle altre verghe che venivano intersecate con canne tagliate in lunghi listelli in modo da costituire un involucro capace di reggere e proteggere l’uva, ma anche qualsiasi materiale si volesse trasportare.

La parte superiore del contenitore era costituita da una corona intrecciata di verghe d’ulivo in cui si incastravano quelle che partivano dal fondo dando così consistenza e delimitazione a tutto il manufatto.

I vendemmiatori della zona del modicano erano preferiti agli altri perché, oltre ad essere valenti lavoratori, erano dotati di una “cruvedda” più grande che, a parità di viaggi dalla vite al punto di deposito, permetteva il trasporto di una maggiore quantità di uva.

Spesso gli altri vendemmiatori, soprattutto gli studenti prestati alla vendemmia, per non sfigurare nei confronti dei compagni e per essere pronti ad incolonnarsi assieme agli altri per avviarsi verso il deposito, ricorrevano al trucco di posare in verticale, dentro la “cruvedda” i primi grappoli d’uva ottenendo l’effetto di riempire subito la “caputa” anche trasportando una minore quantità di prodotto.

Per tutta l’intera giornata i vendemmiatori avrebbero instancabilmente percorso i lunghi filari delle viti per raccogliere e depositare l’uva iniziando dal posto più lontano dal luogo di raccolta.

Questo permetteva di attutire meglio la maggiore stanchezza, che man mano si faceva sempre più sentire, con un minore percorso della distanza fra raccolta e deposito.

LA PAUSE PER IL MANGIARE

Il ritmo continuo della raccolta dell’uva trovava, nel corso della giornata, delle brevi pause per il mangiare che di solito avvenivano verso le dieci per la colazione e verso le quattordici per il pranzo.

Sembrava che tutti i datori di lavoro si fossero messi d’accordo nel dare ai vendemmiatori lo stesso tipo di mangiare.

La colazione era rappresentata da un pezzo di pane con formaggio o qualche fetta di mortadella quasi trasparente, mentre il pranzo oltre al pane prevedeva delle olive e pomodori salati, anche se la parte del leone la facevano le sarde salate e il tonno più comunemente chiamata “tunnina” anch’esso rigorosamente salato.

Nei giorni della vendemmia era un gran via vai dalla bottega situata nel vecchio mercato che tutti chiamavano “ri Vartulieddu”, ma che, in realtà, era il nome un po’ storpiato di “viertulieddu” da “viertula” che era un’antica bisaccia di stoffa che il padre dei titolari della bottega portava sempre a tracolla senza liberarsene mai.

 Questa bottega vendeva quasi esclusivamente prodotti salati con sale grosso della salina di Morghella.

Per quei poveri disgraziati non doveva certamente essere una cura adatta per la propria salute.

La sarda si puliva dal sale e si involtava in una foglia di vite molto ampia per evitare di tenerla direttamente con le mani e si alternava ai morsi che venivano dati al pane.

La “ tunnina” si asciugava della salamoia pressandola fra due pietre o nello stipite delle porte ed avvolgendola poi nella solita foglia.

Il tutto imbevuto di poco vino, perché bisognava continuare a lavorare, e molta acqua tirata dal pozzo con i secchi e conservata sotto gli alberi o sotto le stesse viti in recipienti di creta detti “bummuli” o, se più capienti, “quartari”.

Solo la sera, se il lavoro continuava per parecchi giorni ed il proprietario aveva la casa di campagna attrezzata, le donne potevano preparare la pasta asciutta con salsa essiccata (strattu) per tutti o peperoni, olive e cipolle arrostite che venivano servite nelle pali concave dei fichidindia visto che i piatti erano una rarità che solo pochi potevano permettersi.

Quando la “tina” posizionata sul carro si riempiva d’uva raccolta ed era pronta per essere portata al palmento, vi era sempre qualcuno, scelto fra i più robusti, che dava una prima pigiata per abbassare la massa dell’uva e permettere l’aggiunta di altra uva in modo che i poveri animali potessero portarne un quantitativo maggiore per viaggio.

IL PALMENTO

Il palmento era situato, di solito, all’interno del grande caseggiato dove si svolgeva tutta l’attività del feudo in grandi capannoni di pietra con un ampio portone d’ingresso e molte finestre posizionate nei muri laterali e ciascuna in corrispondenza di un’aia per pigiare l’uva.

Il tetto era costituito da grandi e robuste travi di legno su cui si poggiava un insieme fitto di canne e gesso che tenevano robuste tegole.

Molti di questi tetti avevano anche delle lunghe sbarre di ferro che servivano a rafforzare l’impianto in legno, ma anche da base dove inserire le carrucole che avrebbero permesso, attraverso corde o liane, di alzare o trasportare pesanti attrezzi del palmento con più facilità o appendere un particolare tino di legno detto “campana“ per fare scolare e raccogliere l’ultimo mosto dalla poltiglia rimasta nel fondo del grande  contenitore in muratura posto sotto l’aia e detto “ rituornu “.

In tutti i lati della costruzione, ad eccezione di quello dove era situato il grande portone d’ingresso, vi erano gli appositi siti dove avveniva la trasformazione dell’uva in mosto.

Dalla finestra laterale si accedeva ad uno spazio detto aia dove veniva scaricata l’uva e dove si trovava un robusto “pistaturi” a torso nudo, con pantaloncini e scarponi da alpino che maciullava i grappoli d’uva rendendoli poltiglia o “ pasta” come si chiamava nel gergo dei contadini.

Per darsi più forza si aggrappava ad una corda o liana intrecciata di paglia che penzolava dal basso soffitto del palmento.

Una volta ridotta l’uva in poltiglia, con una ampia pala di legno, si scaricava tutto in un contenitore sottostante di muratura, detto “ rituornu “ che aveva, in parte,  come tetto la stessa aia, ma più profondo e di dimensioni maggiori per permettere, in seguito, di potere estrarre nuovamente l’impasto senza sbattere la testa nel soffitto.

Fra l’aia – soffitto e questo contenitore “ rituornu” vi era un buco con un grosso tubo attraverso il quale passava direttamente nel “rituornu” il mosto già formatosi nell’aia stessa sotto il peso dei piedi del “ pistaturi”.

Nel pavimento del palmento, in corrispondenza del “rituornu” vi era un pozzo detto “ fuossu” dove veniva conservato momentaneamente il mosto in attesa della vendita o del suo trasferimento nel deposito del proprietario.

La permanenza della pasta, come veniva chiamata la poltiglia d’uva pestata assieme ai raspi, all’interno del “rituornu” era importante al fine del tipo di mosto e di vino che si voleva produrre.

Se il tutto si faceva fermentare insieme per almeno ventiquattro ore, allora si otteneva un vino di colore rosso scuro che poteva trovare mercato direttamente con i consumatori abituati ad un vino pastoso e dal sapore forte.

Se rimaneva per quarant’otto ore allora si produceva un vino nero che serviva quasi esclusivamente per il taglio degli altri vini meno dotati di proprietà organolettiche.

Vi era un altro tipo di vino molto ricercato, ma di produzione limitata perché serviva quasi esclusivamente per la disponibilità del proprietario o di qualche buongustaio, che non pensava al grado zuccherino, ma al sapore soave e leggero che lasciava in bocca.

Veniva chiamato “ primo fiore” o “pistammutta” ed era ottenuto direttamente nell’aia prima di dare corso alla pigiatura senza quindi pressione dei piedi  e raccolto in otri di legno detti “carratieddi” per essere portato subito nelle botti ove rimaneva a fermentare.

Una volta deciso il tipo di mosto da produrre e terminato il relativo tempo di permanenza all’interno del “rituornu” si liberava il mosto dalla pasta rimanente che, per essere spremuta fino all’ultima goccia, si metteva nel “cuonzu”.

Si trattava praticamente di un torchio composto da una base in ferro circolare con scalmanatura e buco d’uscita per la raccolta del mosto, su cui si poggiavano, incastrate fra loro con leve di ferro, due semicerchi di listelli di tavole verticali con una piccola fessura fra l’una e l’altra che permetteva lo scorrere del mosto man mano che si aumentava la pressione di spremitura.

Questa pressione avveniva attraverso la posa di grosse travi di legno secondo un posizionamento alternato in verticale ed orizzontale fino ad arrivare nella parte alta del “cuonzu” in direzione dell’altezza dei listelli di tavola verticali.

Al centro del “ cuonzu” vi era una  grossa vite continua con una pressa che avvolgendosi  ad essa pressava l’impasto, attraverso le grosse travi, facendo uscire quanto più mosto possibile.

Il tutto con l’aiuto che i contadini ricevevano nel pressare da robuste sbarre di ferro che permettevano, inserite in apposite scanalature dell’ingranaggio, l’abbassamento della pesante pressa.

Naturalmente all’interno del palmento era tutto un caos per il continuo andirivieni di tanta gente intenta a svolgere le operazioni della propria vendemmia assieme ai rappresentanti del padrone dei terreni del feudo che controllavano affinché nessuno facesse il furbo ed eclissasse qualche salma di mosto a proprio vantaggio.

Certamente usare il termine feudatario può fare storcere il naso a qualcuno che ha studiato la storia solamente sui libri e non si è accorto che, di fatto, il feudalesimo, inteso come organizzazione sociale e come rapporti fra  il proprietario terriero ed i contadini che utilizzavano i terreni, è durato fino  al ventesimo secolo.

Fino ad oltre la metà del ventesimo secolo l’organizzazione delle campagne, nelle nostre zone, rispecchiava ancora la concezione feudataria che vedeva il padrone da una parte ed i contadini dall’altra.

Il primo esercitava il potere decisionale su tutto ed il secondo doveva solo adattarsi e lavorare per non perdere l’utilizzo di quel pezzettino di terra che comunque rappresentava l’unica possibilità di sostentamento per la propria famiglia.

Difatti le terre del padrone venivano divise in piccoli appezzamenti che venivano dati ai contadini secondo il sistema della mezzadria o del “terraggio” che era praticamente un canone fisso generalmente in natura indipendentemente dalla coltura e dalla quantità prodotta.

Se il rapporto era a mezzadria il proprietario metteva il terreno e metà delle semenze oppure dei concimi necessari per la produzione per avere metà del raccolto.

Quello a terraggio prevedeva che al proprietario andasse una quantità prestabilita di salme di mosto se il terreno era adibito a vigneto oppure di frumento o di altre produzioni che, in ogni caso, andavano concordate poiché il proprietario esercitava il diritto di vigilare affinché quel pezzettino di terreno fruttasse nel miglior modo possibile.

In un certo qual modo, sia pure limitato e controllato, il contadino si assumeva solo per sé un certo rischio d’impresa in quanto ciò che era stato stabilito andava consegnato al proprietario indipendentemente dalla quantità prodotta.

I piccoli proprietari si potevano contare sulle dita di una mano ed incominciarono a prendere il sopravvento solo al verificarsi di alcuni fatti d’ordine politico, economico e sociale.

Quello politico fu rappresentato dall’attuazione della riforma agraria che aveva l’intento di creare una classe di piccoli proprietari terrieri, ma che, di fatto, assegnò solo dei terreni in zone difficilmente produttive in quanto i grandi latifondisti si liberarono volentieri solo dei loro terreni improduttivi o di difficile accesso per lavorarli.

Eppure essa fu ugualmente importante perché rafforzò ulteriormente la convinzione che fosse veramente possibile una diversa organizzazione del lavoro nelle campagne dando la speranza a molti contadini di potere diventare, in un futuro non molto lontano, anche proprietari del pezzo di terra che coltivavano. Quella di natura economica investì i grandi proprietari terrieri che non riuscivano più a gestire i loro fondi con un minimo criterio di economicità.

Anche   le calamità naturali e le malattie si abbatterono in modo particolare sulle produzioni agricole assieme al conseguente abbandono del lavoro di bracciantato di molti contadini che preferirono emigrare o riciclarsi soprattutto nell’edilizia e nelle fabbriche del nord che incominciavano a vivere il periodo storico che va sotto il nome di miracolo economico.

Tutto questo portò ad una maggiore disponibilità alla vendita di grandi appezzamenti di terreno ed anche di interi feudi che venivano divisi in piccole proprietà di terra che spesso compravano gli ex contadini che, grazie all’emigrazione od al lavoro in altra parte d’Italia, avevano la disponibilità economica e la mentalità del riscatto sociale acquistando quasi sempre il vecchio terreno che avevano posseduto in modo subalterno al feudatario. Sia che il mosto venisse prodotto all’interno del grande caseggiato del feudo che visualizzava la potenza del feudatario, sia che venisse poi prodotto nei piccoli palmenti dei nuovi proprietari, rimaneva sempre il problema più difficile di tutto il lavoro e cioè vendere il prodotto nel più breve tempo possibile.

La stragrande maggioranza dei contadini non aveva un’attrezzatura sufficiente per potere stoccare il mosto in attesa di vendere a prezzi migliori rispetto a quelli offerti sul mercato nel corso della vendemmia per cui bisognava vendere a tutti i costi.

Ciò anche perché il ciclo lavorativo della raccolta e della produzione del mosto aveva dei tempi ben stabiliti per cui bisognava lasciare subito le attrezzature del palmento che erano state impegnate in quanto era subito pronto un altro produttore per utilizzarle.

Ecco perché già in fase di inizio lavorazione si vedevano tanti piccoli produttori fare la spola fra il palmento ed i luoghi di vendita per cercare di assicurarsi che tutto sarebbe filato liscio.

Il proprietario riempiva una o più bottiglie di mosto mettendo un tappo di vinaccia (raspi e pasta essiccata) che avrebbe permesso l’ossigenazione del mosto ed evitato che fuoriuscisse dalla bottiglia durante il trasporto essendo ancora in fase di ebollizione per lo sprigionarsi dell’anidride carbonica nel processo di fermentazione alcolica.

La prima cosa che faceva era quella di andare in uno dei tanti improvvisati laboratori di analisi che sorgevano in paese nel periodo della vendemmia per conoscere il grado alcolico e presentarsi poi dal compratore per trattare il prezzo del mosto.

Se la contrattazione andava a buon fine allora il contadino provvedeva al trasporto del mosto fino al luogo di stoccaggio del commissionario, che di solito era presso il porto di Marzamemi o in un magazzino nelle vicinanze, perché il trasporto verso le zone di destinazione avveniva via mare o con ferrovia.

File interminabili di carri trainati da cavalli o muli con sopra dei contenitori in legno tipo piccole botti, un po’ affusolate per permettere una migliore sistemazione sul carro e più maneggevoli nel trasporto, facevano la spola fra il palmento ed i depositi del mosto.

 Piccole botti che venivano chiamate “carratieddi“.

Ad uno ad uno venivano scaricati direttamene nei vagoni cisterna della ferrovia o nei contenitori all’interno delle navi da una fila di uomini che sembrava curvarsi ogni giorno di più sotto il peso e la fatica.

Naturalmente con l’evolversi della tecnica e dei mezzi di trasporto incominciarono a vedersi i primi camion con grosse botti e con le pompe a stantuffo trasportare il mosto pompandolo fino alle cisterne senza più “carratieddi” così come gli autocarri chiamati Ape o le Lambrette con furgoni di legno e compensato.

Quasi tutto il mosto venduto era destinato all’esportazione in Francia od a Genova da cui prendeva le varie vie che lo avrebbero portato a svolgere il ruolo di stallone di altri vini meno dotati dal punto di vista organolettico.

Ma non sempre nella vendita filava tutto liscio ed allora erano veramente guai. Anche i concessionari sapevano che i contadini non avevano dove mettere il loro mosto ed una sosta nel comprare avrebbe indotto tutti gli sventurati, che avevano finito di vendemmiare, a vendere il mosto a qualsiasi prezzo.

Queste soste, nel corso della vendemmia, avvenivano con studiata cadenza ed avevano la scusante dei recipienti pieni, delle navi che arrivavano in ritardo o di qualsiasi altro motivo che potesse permettere di abbassare i prezzi e costringere i contadini a vendere ugualmente.

Era sempre un lottare contro un qualcosa che li costringeva a perdurare nella miseria e l’unica speranza di fuggire era rappresentata dall’emigrazione perché erano solo poche le annate che permettevano, con la coltivazione della vite, di vivere un anno dignitoso in attesa di una nuova vendemmia.

Difatti molti partirono verso terre lontane da cui non fecero più ritorno, ma molti altri, soprattutto di prima generazione, ritornarono con nella testa la vita di campagna ed in tasca i soldi del duro lavoro per ricomprarsi, possibilmente, quel pezzo di terra che avevano lasciato e che ancora era umido del loro sudore e stanco delle loro speranze.

Fu così anche alla fine degli anni settanta quando la tendenza solitaria ed egoistica dei contadini di Pachino fu messa a dura prova da continue annate scarse di produzione e povere di introito che, nemmeno l’invenzione collettiva di aggiungere zucchero al mosto durante la fermentazione per aumentare il grado alcolico, era riuscita a salvarli.

Anzi si era solo arricchito il commerciante che importava vagoni di zucchero mentre i contadini, che non sapevano nemmeno le giuste percentuali di zuccheraggio e si erano spesso fidati del loro intuito, avevano anche dovuto buttare spesso il loro prodotto perché rovinato dall’ignoranza di qualsiasi nozione delle tecniche enologiche.

Fu così che quell’annata di vendemmia non vide scagni aperti per comprare né commissionari, né recipienti utili per lo stoccaggio.

Sembrava che il mosto si dovesse buttare nelle “canalate” delle strade e fu sciopero in piazza e casino al Municipio.

Il casino arrivò pure alla Regione con un gruppo esasperato di agricoltori, con politici di accompagnamento ed assessori pronti ad ascoltare.

Fu un validissimo assessore siracusano leader politico nella prima Repubblica che affrontò con convinzione e concretezza il problema.

L’unica soluzione era una cantina sociale che potesse stoccare il mosto e dare poi un contributo agli agricoltori, da parte della Regione, in attesa di tempi migliori per la vendita.

Ma la storica solitudine dei cittadini del paese del vento, attaccati alla roba e gelosi della loro stessa ombra, non aveva prodotto niente che potesse essere condiviso con gli altri.

Non c’era nemmeno l’ombra di una cantina sociale.

Si tentò di cercarne una nella più organizzata Sicilia occidentale, ma si dovette rinunciare perché già colme e comunque avrebbero fatto salire i costi perché lontane.

Qualcuno, quasi sommessamente, si ricordò che nel paese vicino un gruppo di agricoltori aveva dato vita ad un embrione di cantina perché aveva solo firmato lo statuto da un notaio per tempi migliori.

Si chiamarono di corsa i dirigenti, si fecero aprire i termini già scaduti previsti dalla Regione per potere conferire il mosto, si trovarono sul porto di Marzamemi i locali per la macinazione e lo stoccaggio, si formò la prima cantina sociale di viticultori.

I soldi, arrivati dalla Regione come contributo in acconto al conferimento del mosto, furono una vera manna dal cielo per pagare i debiti dell’intero anno e la novità della cantina sociale entrò prepotentemente nei discorsi e nella vita dei paesani.

L’anno successivo scattò anche l’orgoglio paesano e si costituì una nuova cantina tutta autoctona che però durò poco perché, non appena il mosto ebbe un prezzo accettabile sul mercato, rispuntò il sopito egoismo e la difesa del particolare rispetto al bene comune. 

Negli anni ci si scordò pure che il paese del vento era conosciuto come la patria del vino e tutti, come tanti soldati in fila indiana, seguirono i coltivatori di nuovi prodotti che facevano guadagnare di più, ma che snaturarono vecchie conoscenze agricole e portarono ai vecchi cicli negativi.

Si ripeterono le soste negative conosciute per il mosto e tutti i problemi di un’agricoltura che, producendo solo un prodotto, non può essere competitiva.

Ma il vino si è ripresa la sua degna rivincita e nuovi investitori, nuovi operatori vinicoli anche locali, hanno ripreso la tradizione vera e caratterizzante del nostro paese con iniziative serie ed al passo dei tempi con la riproposizione del prodotto vino in tutti i mercati nazionali ed internazionali.

Adesso ci sono le iniziative, i produttori, le conoscenze e le intelligenze capaci di non ripetere gli errori del passato frutto dell’egoismo, della chiusura e dell’ignoranza che hanno prodotto miseria e incapacità di sviluppo per il nostro paese e per il nostro territorio.

Lavorate in sinergia e le risposte saranno positive.