martedì 18 giugno 2024
sabato 22 luglio 2023
A
SIRACUSA DOPO IL BALLOTTAGGIO
LA
PROPAGANDA ELETTORALE È FINITA, ADESSO CI SONO SOLO I PROBLEMI
La lunga battaglia
elettorale per la elezione del sindaco di Siracusa si è finalmente conclusa e
l’augurio che ci facciamo noi cittadini è quello che si passi, al più presto,
alla fase operativa per affrontare i gravi problemi comunali e si mettano da
parte le diatribe ed i rancori.
Poiché i ricordi e le
azioni del passato sono importanti, anche in politica, è opportuno fare un
passo indietro.
Il sindaco rieletto,
Francesco Italia, è stato tacciato di essere il sindaco del Tar, a causa dei
presunti brogli elettorali e di non essersi dimesso dopo lo scioglimento del
consiglio comunale.
Mentre ci auguriamo che il
nuovo confronto fra tutte le forze politiche si sviluppi sui problemi reali ed
importanti che assillano la nostra città, non possiamo non chiarire brevemente
quanto successo.
Mi sforzo di farlo in
questo articolo perché non più, per mia scelta, soggetto attivo dell’agone
politico e non più persona che privilegi uno schieramento rispetto ad un altro.
I brogli elettorali
successi in alcune sezioni sono solo il frutto dell’ignoranza dei componenti i
seggi elettorali che pensano solo di guadagnarsi il gettone di presenza
elettorale senza capire il tipo di lavoro che devono svolgere né la sua
importanza giuridica.
Né chi perde le elezioni
e né chi le vince sono responsabili di ciò che succede nei seggi tranne che non
ci siano stati atti di natura penale da parte dei contendenti cosa che, per
Siracusa, non solo non é emersa, ma nessuna azione penale è stata messa in atto
dalla magistratura.
Sulle dimissioni
richieste al sindaco dobbiamo dire che la normativa regionale non le prevedeva così
come nessuno avrebbe previsto la dabbenaggine di un consiglio comunale che, non
approvando il bilancio, si autoesclude dalla gestione della cosa pubblica dopo
pochi mesi. Esempio lampante dell’ignoranza giuridica dei consiglieri eletti
non volendo pensare all’eventuale mala fede di chi li ha consigliati
Quindi finiamola con
questa tiritela che nuoce solo alla città.
Come ho avuto modo di
scrivere in altre occasioni, sarebbe utile che la regione istituisse gli albi
comunali degli scrutatori il cui accesso dovrebbe essere subordinato al
superamento di appositi corsi di formazione. Ciò a garanzia dell’esito del voto
rispondente alla volontà degli elettori, assicurerebbe tutti candidati della
correttezza giuridica degli atti e permetterebbe maggiore garanzia agli stessi
operatori dei seggi lasciati spesso allo sbando.
Questa campagna
elettorale per la elezione del sindaco e del consiglio comunale è stata strana
nella scelta dei candidati, nelle alleanze, nei comportamenti dei soggetti
politici, nella propaganda e nei risultati finali.
Il centro destra era con
il vento elettorale in poppa ed ha sciupato il vantaggio nel lungo tempo
impiegato per far quadrare gli equilibri all’interno dei vari gruppi
belligeranti e nella scelta di un candidato persona per bene, ma modesto sul piano politico e con poco carisma
necessario per elevarlo a punto di aggregazione e di riferimento.
Se a questo si aggiungono
le defezioni quali conseguenza dei riflessi delle non candidature era facile
prevedere un bis simile alle precedenti elezioni comunali affrontate dal centro
destra a Siracusa.
Si vince il primo turno e
si perde il ballottaggio nel momento in cui il confronto diventa meno politico
e più personale.
Il centro destra, così
come il centro sinistra, hanno commesso un altro grave errore di strategia
politica. Si punta a molte liste civiche convinti di portare più consensi ai candidati
sindaci visto che si usa poco il voto disgiunto, pagando poi lo scotto più
ampio in fase di ballottaggio.
Non tengono conto della
difficoltà di molte liste a superare il 5% per potere ottenere dei consiglieri
comunali, così come è avvenuto, che poi genera il disinteresse di tutti i
candidati non eletti rispetto al ballottaggio del sindaco. Quindi sarebbe
meglio avere poche liste, ma con candidati forti evitando anche lo squallido
spettacolo di candidati con zero voti, di liste incomplete e di accordi di
apparentamenti che fanno venire l’orticaria.
Adesso il sindaco eletto
deve lavorare nell’interesse di tutti i cittadini tenendo presenti alcune cose
importanti.
La prima è che deve
prendere atto di non avere, a tutt’oggi, la maggioranza in consiglio comunale
per cui deve cercare il coinvolgimento dei consiglieri anche se, a mio parere,
questa situazione durerà poco perché molti consiglieri, per convinzione o per
interesse, cercheranno spazi all’interno della maggioranza.
Il sindaco però deve
convincersi che l’aureo isolamento con la propria corte di adepti è finito e
deve, nei fatti, essere il sindaco di tutti uscendo dalle stanze comunali e
colloquiando con i cittadini.
Un cambio di passo e di
strategia anche per lui perché il tipo di gestione senza controlli politici e
senza aperture alla città sarà solo un ricordo più o meno bello, ma non
conducente né politicamente né amministrativamente. (Pubblicato su Timeout del 1 luglio
2023
Pippo Bufardeci
mercoledì 31 maggio 2023
FINITO
A SIRACUSA IL PRIMO ATTO ELETTORALE
ADESSO IL DIFFICILE, COMPOSITO BALLOTTAGGIO
Finita l’euforia della corsa alla candidatura per
essere eletti sindaci o consiglieri comunali e sbattute molte teste sulla dura
parete della realtà del voto, possiamo solo sperare che si faccia un serio
esame della realtà uscita dalle urne e che l’interesse per la città possa avere
il sopravvento rispetto a quello della velleità personale.
Intanto speriamo che, finalmente, gli strateghi
elettorali capiscano che non è importante preparare tante liste attorno ai vari
candidati sindaci se poi esse non raggiungono il tanto trascurato 5% dei voti
validi per potere poi competere per aggiudicarsi i consiglieri comunali.
Non solo si eviterebbe di vedere la ridicola presenza
di liste con molti candidati che si fermano a zero voti, ma anche la
mortificazione di tanti candidati che magari hanno ottenuto un buon successo
elettorale, ma messi in una lista inferiore al 5% che non prende consiglieri e
candidati eletti con meno voti perché in liste che hanno superato detto
sbarramento.
A Siracusa città su 25 liste presentate solo 8
concorreranno per aggiudicarsi qualcuno dei 31 consiglieri comunali in quanto uno
deve essere assegnato al candidato sindaco che perderà il ballottaggio.
Quindi è sempre opportuno formare poche liste
elettoralmente forti piuttosto che una carnevalata di simboli, manifesti e
fotografie che poi non determineranno niente.
I candidati sindaci che si sfideranno al ballottaggio
sono Messina per il centrodestra e Italia espressione centrista di Azione
aderente al terzo polo.
Le liste saranno otto di cui quattro del centrodestra,
una di Italia, una di Garozzo, una del PD ed una di Bandiera. E’ chiaro che sia
le liste che i candidati con maggiori voti delle stesse dovranno aspettare sia gli
eventuali apparentamenti che il risultato del ballottaggio.
Il risultato del ballottaggio non solo ci dirà chi
sarà il nuovo sindaco, ma anche chi saranno i candidati che passeranno al grado
di consiglieri comunali e se saranno il frutto della spartizione del premio di
maggioranza o di quello che resterà alla minoranza.
Con la situazione ferma al primo responso delle urne
avremmo, in caso di vittoria di Italia, il pieno di consiglieri appartenenti
tutti alla sua lista, mentre le quattro liste del centrodestra, assieme alla
lista di Garozzo, di Bandiera e del PD dovrebbero concorrere per dividersi lo
striminzito numero dei seggi spettanti all’opposizione per di più diminuito
anche del seggio per il candidato sindaco perdente. Nel caso di vittoria di
Ferdinando Messina sarebbero quattro le liste che si dividerebbero i
consiglieri comunali di maggioranza, mentre le altre quattro liste e cioè
Bandiera, Garozzo, Italia e PD dovrebbero dividersi la dote spettante alle
liste perdenti.
Quindi potrebbe diventare importante il modo come si
arriverà agli apparentamenti delle varie liste per il ballottaggio.
Le liste senza consiglieri saranno poco cercate perché
difficilmente porterebbero voti i candidati che sanno di non potere uscire dal
limbo elettorale per diventare consiglieri e che, al massimo, qualcuno potrebbe
essere abbindolato con la promessa di assessori che però saranno molto richiesti
da chi avrà consiglieri comunali che daranno, in prospettiva, il loro apporto
al sindaco anche in consiglio comunale e potranno difendere il loro
assessorato.
A me sembra potrà avere più difficoltà il centro destra
nel cercare nuovi compagni di viaggio perché, avendo già la necessità di
soddisfare le esigenze di quattro liste già apparentate, non avrebbe altre
fette di torta per altri dell’ultima ora.
Nel campo di Italia potrebbero esserci più opportunità
di apparentamento, ma con grosse difficoltà che sono sia di natura politica che
operativa.
Se Italia si presentasse da solo al ballottaggio
avrebbe moltissimi suoi candidati diventare consiglieri comunali il cui numero
diminuirebbe in rapporto ai nuovi apparentamenti.
Praticamente la lista di Italia dovrebbe sacrificare,
e non sarebbe facile, molti sui candidati che non diventerebbero consiglieri
comunali perché, molti di questi, sarebbero appannaggio dei nuovi alleati.
Italia ha poi un altro problema oltre a quello del
numero dei consiglieri da assicurare alla sua lista che è di natura politica e
riguarda il rapporto con Garozzo per cui, i due capi provinciali, di Azione e
di Italia Viva, che assieme dovrebbero essere terzo polo, devono riflettere da
soli o dopo spiegazioni dei leader nazionali.
Le liste unitarie per le Europee, che Renzi e Calenda
non potranno evitare, impongono anche rapide riappacificazioni per l’interesse
politico comune che nessun rancore personale può essere prioritario nei
rapporti politici che non si esauriscono solo fra i due contendenti, ma
coinvolgono le strutture di due schieramenti che devono marciare insieme per
comuni obiettivi.
Chiuso nel più breve tempo possibile questo aspetto
politico, si dovrà decidere che tipo di rapporto si dovrà stabilire e quale
proposta politica ed amministrativa prospettare a Bandiera ed al PD per un loro
eventuale coinvolgimento.
Quindi ancora è tutto in alto mare, ma bisogna decidere rapidamente per rientrare in porto prima che infuri la tempesta.
PIPPO BUFARDECI
SIRACUSA 31/05/2023
venerdì 6 gennaio 2023
LA FESTA DEL VINO,
STORIA E TRADIZIONI A PACHINO
IL MIO INTERVENTO PER PERBACCO DEL 05/01/2023
INTRODUZIONE
Bisogna
essere grati ed apprezzare il lavoro che ha svolto e continua a svolgere il
gruppo di amici pachinesi che, con l’associazione “Vivi Vinum Pachino”, lavora
per riportare alla sua giusta valenza il ruolo sociale, storico, economico e
identitario che il vino ha rappresentato, negli anni, per il comune di Pachino
e per i suoi cittadini.
L’organizzazione
della festa della vendemmia, di quella di San Martino purtroppo osteggiata dal
forte maltempo e di PerBacco non è quindi un fatto solo di aggregazione
folcloristica o di cittadini in una logica di divertimento.
Essa
ha la fondata ambizione di essere momento di riappropriazione e di
riproposizione di una identità economica che ha caratterizzato il nostro
passato, ma che può essere ancora valida per le nuove generazioni se si saprà
coniugare con la nuova realtà e la si saprà immettere in un nuovo contesto
sociale, turistico e storico che possa dare un contributo notevole nell’ambito
economico ed occupazionale del nostro paese.
Ecco
allora che il ricordo attraverso la festa si trasforma in semenza di sviluppo e
di aiuto per la crescita di nuove generazioni che possono trovare lavoro e
riscontro economico personale per una vita più dignitosa e per un contesto
sociale comunale più inserito nelle dinamiche serie di sviluppo duraturo
dell’intero territorio.
Gli
amici dell’Associazione Vivi Vinum Pachino hanno le idee chiare su ciò che è
necessario fare e vanno quindi sostenuti dai cittadini e dalle istituzioni
perché si concretizzi un disegno
strategico di sviluppo che, partendo dal vino, può rigenerare un’intera
economia locale.
Per concretizzare
penso che al vino
vada aggiunta la valorizzazione del contesto storico e delle nostre tradizioni
con percorsi che valorizzino i nostri numerosi palmenti che ancora si trovano
nel perimetro urbano e si dia la dignità e l’importanza che merita al Museo del
Vino.
Bisogna costituire i percorsi enogastronomici
che ripropongano la bontà della nostra cultura gastronomica;
Con
la disponibilità delle varie cantine locali bisogna incrementare la
degustazione vinicola;
Riappropriamoci
del marchio Vino nero Pachino e Vino Rosso Pachino che caratterizzi seriamente la
provenienza territoriale che è quella del territorio pachinese e del lavoro
svolto dai contadini e dai produttori di Pachino anche in zone a coltura
vitivinicola che, pur non facendo parte del territorio di Pachino, sono stati
curati, lavorati e resi produttive dai pachinesi.
Bisogna
anche capire e fare capire ai nostri amministratori ed ai cittadini
l’importanza strategica sul piano culturale e di sviluppo del Palmento Di
Rudinì che non può recitare il ruolo, sul quale si sta avviando per colpevole
apatia, di retaggio del passato.
Infine,
e non per ultimo, impostare una sinergia fra la produzione locale e la vendita
del ciliegino con la produzione e la vendita del vino di Pachino. Si potrebbe
iniziare con una pubblicità combinata per cui le cassette del ciliegino
potrebbero evidenziare, con una scritta, un riferimento al nostro vino e le
confezioni del vino un riferimento al ciliegino.
Bisogna
lavorare insieme, sinergicamente ed abbandonare i residui retaggi del pachinese
individualista che, nei nostri tempi, non ha generato sviluppo né sociale né
culturale né economico.
Ritengo
che la strada tracciata dagli amici di Vivi Vinum Pachino sia la migliore
possibile per cercare di cambiare in meglio la prospettiva di sviluppo del
nostro paese e dei suoi cittadini per cui, tutti insieme, rimbocchiamoci le
maniche, facciamo finalmente squadra e collaboriamo seriamente affinché questo
progetto ambizioso, degli amici di Vivi Vinum Pachino e delle cantine aderenti
possa vedere la luce nel più breve tempo possibile.
Di Rudinì
Non
posso ulteriormente non evidenziare, sia pure brevemente, il forte rischio che
sta correndo il palmento Di Rudinì di rimanere un rudere come i tanti che si
trovano nel nostro territorio frutto dell’incuria e dell’incapacità di noi
pachinesi di essere propositivi.
Non
voglio lanciare anatemi contro questa amministrazione o altre che hanno gestito
il nostro comune, ma soltanto favorire la volontà espressa da molti, che hanno
lavorato anche gratuitamente, per rendere dignitoso questo importante monumento
storico – sociale per farlo diventare l’emblema del lavoro dei nostri nonni e
dei nostri padri in un nuovo contesto di vitalità culturale, turistica,
economica ed identitaria.
Non
mi preme nemmeno ricordare che il Di Rudinì ristrutturato e consegnato al
patrimonio comunale è il frutto dell’esito positivo del PIT 9 denominato
ecomuseo del mediterraneo con finanziamenti europei in un contesto di sinergia
con i comuni della zona sud e con un lavoro costante da parte
dell’amministrazione Adamo di cui ero l’assessore di riferimento dell’ecomuseo
occupandomi di sviluppo economico e scegliendo, d’intesa con il sindaco Adamo,
proprio il vecchio palmento Di Rudinì quale progetto da realizzare come comune
di Pachino.
Voglio
solo dare voce a quanti, cominciando proprio dall’associazione Vivi vinum
Pachino ed altri, hanno dato la loro disponibilità a dare supporto
all’amministrazione comunale per rivitalizzare con urgenza questo patrimonio
storico che appartiene a tutta la comunità pachinese.
Ciò
anche in considerazione della motivazione banale che sembra stia alla base
della chiusura che è l’assenza di corrente elettrica per mancanza di pagamento
della bolletta.
Naturalmente
non facciamo nostra l’altra motivazione che viene sussurrata in paese che
vedrebbe qualche associazione della provincia di Catania interessata a svolgere
ruoli di gestione di vari servizi di competenza comunale fra cui forse anche la
gestione del Di Rudinì.
Suggerisco
all’amministrazione comunale di fare chiarezza su questo importante problema e
di coinvolgere le associazioni disponibili di Pachino e quanti pachinesi
possono dare il loro contributo affinché con la maggiore trasparenza possibile
ci si riappropri di questo importante bene comune.
Possiamo dire che la
vendemmia pachinese iniziava già la sera dell’ultima domenica della festa della
Madonna quando, alla fine dei fuochi d’artificio della mezzanotte, si sentiva
sempre una voce, fra la gente, che diceva: Ora pajativi i debiti.
Sembrava una frase di
scherno, ma era la visione plastica che intercorreva fra le famiglie pachinesi
ed il rito della vendemmia inteso come inizio di speranza o di future pene per
le famiglie e per un intero paese.
Tutta la vita
sociale, economica, lavorativa di un paese era legata all’unica fonte di
reddito, annuale, che caratterizzava il quadro economico di un intero
territorio.
Ogni cosa veniva
rinviata a dopo la vendemmia.
Si pagava il
sostentamento di un intero anno dopo la vendemmia, ci si sposava dopo la
vendemmia, le attività onerose si rinviavano dopo la vendemmia, si rimaneva in
paese o si emigrava dopo la vendemmia.
Ma adesso vediamo come si svolgeva, di fatto, la vendemmia.
LA CIURMA
La sera prima della raccolta dell’uva, per formare la
ciurma dei raccoglitori, ci si recava nella piazzetta del mercato dove sotto i
lastroni di marmo dei banconi del pesce, si assiepavano robuste braccia di
braccianti locali ed altre venute dai paesi vicini per partecipare ai lavori
della vendemmia
I proprietari delle vigne da vendemmiare guardavano ad uno
ad uno quella mercanzia da lavoro e scrutavano muscoli, corporatura e capacità
dinamiche che ne avrebbero fatto un buon “vignignaturi”.
Venivano scartati quelli troppo magri o troppo grassi
nonché quelli dall’aspetto malandrino o “sciarrino”
che, sicuramente, sarebbero stati incontrollabili ed avrebbero creato
scompiglio con gli altri abbassando così la capacità lavorativa.
Era d’uso che per tutto il periodo della vendemmia intere
famiglie si trasferissero dai paesi vicini con attrezzature, carri e masserie
per partecipare al guadagno del lavoro della “ vignigna “ con grandi sacrifici dormendo sotto i carri o negli
angoli delle case senza alcuna sicurezza igienica e spesso sottoposti ai
capricci del tempo.
Gli uomini, ma anche le donne, venivano “scartate” scelte ad uno ad uno fino al
completamento del numero sufficiente di persone che avrebbero costituito il
gruppo “la ciurma“ necessaria alle
esigenze del contadino o del caporale che assoldava gli uomini.
Quelli scartati potevano solo sperare di essere chiamati
per qualche caso di emergenza da parte di qualcuno che aveva la necessità di
sostituire qualche lavoratore non più disponibile o di svolgere i lavori della
vendemmia con una certa fretta o perché aveva avuto all’ultimo momento la
disponibilità del palmento.
IL PALMENTO
Il palmento era importante che fosse disponibile nei giorni
in cui l’esperto contadino riteneva si dovesse vendemmiare per la giusta
maturazione dell’uva.
Sbagliare la giornata di vendemmia avrebbe comportato anche
danni rilevanti per il raccolto e complicato le possibilità di vendita.
Non bisognava anticipare la giornata della vendemmia
rispetto alla giusta maturazione dell’uva né si doveva differire di molto.
Poiché si trattava di un mosto o vino destinato ad avere
una colorazione molto nera ed una corposità capace di tagliare vini meno dotati
per rendere la soluzione idonea per rispondere alle esigenze del mercato, la
vendita teneva presente alcune qualità organolettiche che erano rappresentate
dalla gradazione alcolica e dalla quantità di zucchero presente nel mosto.
Più la gradazione alcolica era alta e nel giusto rapporto
con il grado zuccherino e più alto era il prezzo che veniva pagato.
Difatti, nei locali della trattativa fra la domanda e
l’offerta che venivano chiamati “ scagni
“, il prezzo si stabiliva per grado alcolico e quello per la salma, ( unità di misura di vendita
corrispondente a circa 96 litri ), era il risultato della moltiplicazione fra
il prezzo di un grado ed il totale dei gradi che esprimeva quella partita di
mosto.
Quindi la soluzione ottimale per i contadini era quella di
avere un’alta gradazione con buona presenza di zucchero senza però che fosse a
discapito della quantità prodotta.
Da qui se ne deduce che la scelta della giornata utile per
effettuare la raccolta dell’uva diventava strategica ai fini del guadagno
soprattutto se si era in presenza di una produzione abbastanza rilevante.
Però bisognava prenotare con largo anticipo l’utilizzo
delle attrezzature del palmento per cui, con il consenso dei gestori del
palmento, alcuni mettevano in atto delle azioni di furbizia tendenti a favorire
gli amici, il proprietario degno di rispetto a discapito dei piccoli e poveri
disgraziati senza alcuna tutela.
Fra queste furbate vi era quella di prenotare più volte il
palmento ed in giornate diverse per potere poi scegliere quella più utile
oppure dichiarare, da parte dei gestori, di avere esaurito tutta la
disponibilità della settimana, ma lasciare dei giorni inutilizzati per le
esigenze degli amici.
Se vi erano delle giornate non utilizzate si mettevano,
all’ultimo momento, a disposizione di chi non aveva avuto la fortuna di essere
iscritto nell’elenco ufficiale ed era così costretto a vendemmiare in base alla
disponibilità del giorno e non del grado di maturità dell’uva.
LA GIORNATA DELLA
VENDEMMIA
Dopo essersi alzati ancora con il buio della notte, finalmente
gli attori della vendemmia arrivavano nella vigna che doveva essere vendemmiata.
Si incominciava la giornata con l’ammucchiata di un buon
quantitativo di grappoli d’uva sui teloni che venivano stesi a terra
nell’attesa di caricare i tini sui carri che avrebbero trasportato il tutto nei
palmenti.
Non era consentito perder tempo ed i lavoratori, sotto il
controllo dello sguardo vigile del proprietario o del capo ciurma incaricato
della sorveglianza, si dividevano i filari di viti da vendemmiare ed
incominciavano la raccolta dei grappoli che venivano posti in recipienti dette
“cruvidduzzi” in quanto le più adatte
per il trasporto fino al punto base di raccolta nei teloni o direttamente nella
“tina” sopra il carro.
Questi recipienti, che erano di diverse dimensioni in base
al tipo di prodotto da trasportare od anche dalle distanze da effettuare,
avevano nomi diversi. Quelli di piccola capacità si chiamavano “crovidduzzi” di media capacità si
chiamavano “cruveddi” e quelle ancora
più grandi “cufini”.
Esse erano costituiti da un fondo intrecciato di verghe di
ulivo da cui si alzavano delle altre verghe che venivano intersecate con canne
tagliate in lunghi listelli in modo da costituire un involucro capace di
reggere e proteggere l’uva, ma anche qualsiasi materiale si volesse
trasportare.
La parte superiore del contenitore era costituita da una
corona intrecciata di verghe d’ulivo in cui si incastravano quelle che partivano
dal fondo dando così consistenza e delimitazione a tutto il manufatto.
I vendemmiatori della zona del modicano erano preferiti
agli altri perché, oltre ad essere valenti lavoratori, erano dotati di una “cruvedda” più grande che, a parità di
viaggi dalla vite al punto di deposito, permetteva il trasporto di una maggiore
quantità di uva.
Spesso gli altri vendemmiatori, soprattutto gli studenti
prestati alla vendemmia, per non sfigurare nei confronti dei compagni e per
essere pronti ad incolonnarsi assieme agli altri per avviarsi verso il
deposito, ricorrevano al trucco di posare in verticale, dentro la “cruvedda” i primi grappoli d’uva
ottenendo l’effetto di riempire subito la “caputa”
anche trasportando una minore quantità di prodotto.
Per tutta l’intera giornata i vendemmiatori avrebbero
instancabilmente percorso i lunghi filari delle viti per raccogliere e
depositare l’uva iniziando dal posto più lontano dal luogo di raccolta.
Questo permetteva di
attutire meglio la maggiore stanchezza, che man mano si faceva sempre più
sentire, con un minore percorso della distanza fra raccolta e deposito.
LA PAUSE PER IL
MANGIARE
Il ritmo continuo della raccolta dell’uva trovava, nel
corso della giornata, delle brevi pause per il mangiare che di solito avvenivano
verso le dieci per la colazione e verso le quattordici per il pranzo.
Sembrava che tutti i datori di lavoro si fossero messi
d’accordo nel dare ai vendemmiatori lo stesso tipo di mangiare.
La colazione era rappresentata da un pezzo di pane con
formaggio o qualche fetta di mortadella quasi trasparente, mentre il pranzo
oltre al pane prevedeva delle olive e pomodori salati, anche se la parte del
leone la facevano le sarde salate e il tonno più comunemente chiamata “tunnina” anch’esso rigorosamente salato.
Nei giorni della vendemmia era un gran via vai dalla
bottega situata nel vecchio mercato che tutti chiamavano “ri Vartulieddu”, ma che, in realtà, era il nome un po’ storpiato di
“viertulieddu” da “viertula” che era un’antica bisaccia di
stoffa che il padre dei titolari della bottega portava sempre a tracolla senza
liberarsene mai.
Questa bottega
vendeva quasi esclusivamente prodotti salati con sale grosso della salina di
Morghella.
Per quei poveri disgraziati non doveva certamente essere
una cura adatta per la propria salute.
La sarda si puliva dal sale e si involtava in una foglia di
vite molto ampia per evitare di tenerla direttamente con le mani e si alternava
ai morsi che venivano dati al pane.
La “ tunnina” si
asciugava della salamoia pressandola fra due pietre o nello stipite delle porte
ed avvolgendola poi nella solita foglia.
Il tutto imbevuto di poco vino, perché bisognava continuare
a lavorare, e molta acqua tirata dal pozzo con i secchi e conservata sotto gli
alberi o sotto le stesse viti in recipienti di creta detti “bummuli” o, se più capienti, “quartari”.
Solo la sera, se il lavoro continuava per parecchi giorni
ed il proprietario aveva la casa di campagna attrezzata, le donne potevano
preparare la pasta asciutta con salsa essiccata (strattu) per tutti o peperoni, olive e cipolle arrostite che
venivano servite nelle pali concave dei fichidindia visto che i piatti erano
una rarità che solo pochi potevano permettersi.
Quando la “tina”
posizionata sul carro si riempiva d’uva raccolta ed era pronta per essere
portata al palmento, vi era sempre qualcuno, scelto fra i più robusti, che dava
una prima pigiata per abbassare la massa dell’uva e permettere l’aggiunta di
altra uva in modo che i poveri animali potessero portarne un quantitativo
maggiore per viaggio.
IL PALMENTO
Il palmento era situato, di solito, all’interno del grande
caseggiato dove si svolgeva tutta l’attività del feudo in grandi capannoni di
pietra con un ampio portone d’ingresso e molte finestre posizionate nei muri
laterali e ciascuna in corrispondenza di un’aia per pigiare l’uva.
Il tetto era costituito da grandi e robuste travi di legno
su cui si poggiava un insieme fitto di canne e gesso che tenevano robuste
tegole.
Molti di questi tetti avevano anche delle lunghe sbarre di
ferro che servivano a rafforzare l’impianto in legno, ma anche da base dove
inserire le carrucole che avrebbero permesso, attraverso corde o liane, di
alzare o trasportare pesanti attrezzi del palmento con più facilità o appendere
un particolare tino di legno detto “campana“
per fare scolare e raccogliere l’ultimo mosto dalla poltiglia rimasta nel fondo
del grande contenitore in muratura posto
sotto l’aia e detto “ rituornu “.
In tutti i lati della costruzione, ad eccezione di quello
dove era situato il grande portone d’ingresso, vi erano gli appositi siti dove
avveniva la trasformazione dell’uva in mosto.
Dalla finestra laterale si accedeva ad uno spazio detto aia
dove veniva scaricata l’uva e dove si trovava un robusto “pistaturi” a torso
nudo, con pantaloncini e scarponi da alpino che maciullava i grappoli d’uva
rendendoli poltiglia o “ pasta” come
si chiamava nel gergo dei contadini.
Per darsi più forza si aggrappava ad una corda o liana
intrecciata di paglia che penzolava dal basso soffitto del palmento.
Una volta ridotta l’uva in poltiglia, con una ampia pala di
legno, si scaricava tutto in un contenitore sottostante di muratura, detto “
rituornu “ che aveva, in parte, come
tetto la stessa aia, ma più profondo e di dimensioni maggiori per permettere,
in seguito, di potere estrarre nuovamente l’impasto senza sbattere la testa nel
soffitto.
Fra l’aia – soffitto e questo contenitore “ rituornu” vi era un buco con un grosso
tubo attraverso il quale passava direttamente nel “rituornu” il mosto già formatosi nell’aia stessa sotto il peso dei
piedi del “ pistaturi”.
Nel pavimento del palmento, in corrispondenza del “rituornu” vi era un pozzo detto “ fuossu” dove veniva conservato
momentaneamente il mosto in attesa della vendita o del suo trasferimento nel
deposito del proprietario.
La permanenza della pasta, come veniva chiamata la
poltiglia d’uva pestata assieme ai raspi, all’interno del “rituornu” era importante al fine del tipo di mosto e di vino che si
voleva produrre.
Se il tutto si faceva fermentare insieme per almeno
ventiquattro ore, allora si otteneva un vino di colore rosso scuro che poteva
trovare mercato direttamente con i consumatori abituati ad un vino pastoso e
dal sapore forte.
Se rimaneva per quarant’otto ore allora si produceva un
vino nero che serviva quasi esclusivamente per il taglio degli altri vini meno
dotati di proprietà organolettiche.
Vi era un altro tipo di vino molto ricercato, ma di
produzione limitata perché serviva quasi esclusivamente per la disponibilità del
proprietario o di qualche buongustaio, che non pensava al grado zuccherino, ma
al sapore soave e leggero che lasciava in bocca.
Veniva chiamato “ primo
fiore” o “pistammutta” ed era
ottenuto direttamente nell’aia prima di dare corso alla pigiatura senza quindi
pressione dei piedi e raccolto in otri
di legno detti “carratieddi” per
essere portato subito nelle botti ove rimaneva a fermentare.
Una volta deciso il tipo di mosto da produrre e terminato
il relativo tempo di permanenza all’interno del “rituornu” si liberava il mosto dalla pasta rimanente che, per
essere spremuta fino all’ultima goccia, si metteva nel “cuonzu”.
Si trattava praticamente di un torchio composto da una base
in ferro circolare con scalmanatura e buco d’uscita per la raccolta del mosto,
su cui si poggiavano, incastrate fra loro con leve di ferro, due semicerchi di
listelli di tavole verticali con una piccola fessura fra l’una e l’altra che
permetteva lo scorrere del mosto man mano che si aumentava la pressione di
spremitura.
Questa pressione avveniva attraverso la posa di grosse
travi di legno secondo un posizionamento alternato in verticale ed orizzontale
fino ad arrivare nella parte alta del “cuonzu”
in direzione dell’altezza dei listelli di tavola verticali.
Al centro del “ cuonzu”
vi era una grossa vite continua con una
pressa che avvolgendosi ad essa pressava
l’impasto, attraverso le grosse travi, facendo uscire quanto più mosto
possibile.
Il tutto con l’aiuto che i contadini ricevevano nel
pressare da robuste sbarre di ferro che permettevano, inserite in apposite
scanalature dell’ingranaggio, l’abbassamento della pesante pressa.
Naturalmente all’interno del palmento era tutto un caos per
il continuo andirivieni di tanta gente intenta a svolgere le operazioni della
propria vendemmia assieme ai rappresentanti del padrone dei terreni del feudo
che controllavano affinché nessuno facesse il furbo ed eclissasse qualche salma
di mosto a proprio vantaggio.
Certamente usare il termine feudatario può fare storcere il
naso a qualcuno che ha studiato la storia solamente sui libri e non si è
accorto che, di fatto, il feudalesimo, inteso come organizzazione sociale e
come rapporti fra il proprietario
terriero ed i contadini che utilizzavano i terreni, è durato fino al ventesimo secolo.
Fino ad oltre la metà del ventesimo secolo l’organizzazione
delle campagne, nelle nostre zone, rispecchiava ancora la concezione feudataria
che vedeva il padrone da una parte ed i contadini dall’altra.
Il primo esercitava il potere decisionale su tutto ed il
secondo doveva solo adattarsi e lavorare per non perdere l’utilizzo di quel
pezzettino di terra che comunque rappresentava l’unica possibilità di
sostentamento per la propria famiglia.
Difatti le terre del padrone venivano divise in piccoli
appezzamenti che venivano dati ai contadini secondo il sistema della mezzadria
o del “terraggio” che era
praticamente un canone fisso generalmente in natura indipendentemente dalla
coltura e dalla quantità prodotta.
Se il rapporto era a
mezzadria il proprietario metteva il terreno e metà delle semenze oppure dei
concimi necessari per la produzione per avere metà del raccolto.
Quello a terraggio
prevedeva che al proprietario andasse una quantità prestabilita di salme di
mosto se il terreno era adibito a vigneto oppure di frumento o di altre
produzioni che, in ogni caso, andavano concordate poiché il proprietario
esercitava il diritto di vigilare affinché quel pezzettino di terreno fruttasse
nel miglior modo possibile.
In un certo qual modo, sia pure limitato e controllato, il contadino
si assumeva solo per sé un certo rischio d’impresa in quanto ciò che era stato
stabilito andava consegnato al proprietario indipendentemente dalla quantità
prodotta.
I piccoli proprietari si potevano contare sulle dita di una
mano ed incominciarono a prendere il sopravvento solo al verificarsi di alcuni
fatti d’ordine politico, economico e sociale.
Quello politico fu rappresentato dall’attuazione della
riforma agraria che aveva l’intento di creare una classe di piccoli proprietari
terrieri, ma che, di fatto, assegnò solo dei terreni in zone difficilmente
produttive in quanto i grandi latifondisti si liberarono volentieri solo dei
loro terreni improduttivi o di difficile accesso per lavorarli.
Eppure essa fu ugualmente importante perché rafforzò ulteriormente
la convinzione che fosse veramente possibile una diversa organizzazione del
lavoro nelle campagne dando la speranza a molti contadini di potere diventare,
in un futuro non molto lontano, anche proprietari del pezzo di terra che
coltivavano. Quella di natura economica investì i grandi proprietari terrieri
che non riuscivano più a gestire i loro fondi con un minimo criterio di
economicità.
Anche le calamità
naturali e le malattie si abbatterono in modo particolare sulle produzioni
agricole assieme al conseguente abbandono del lavoro di bracciantato di molti
contadini che preferirono emigrare o riciclarsi soprattutto nell’edilizia e
nelle fabbriche del nord che incominciavano a vivere il periodo storico che va
sotto il nome di miracolo economico.
Tutto questo portò ad una maggiore disponibilità alla
vendita di grandi appezzamenti di terreno ed anche di interi feudi che venivano
divisi in piccole proprietà di terra che spesso compravano gli ex contadini
che, grazie all’emigrazione od al lavoro in altra parte d’Italia, avevano la
disponibilità economica e la mentalità del riscatto sociale acquistando quasi
sempre il vecchio terreno che avevano posseduto in modo subalterno al
feudatario. Sia che il mosto venisse prodotto all’interno del grande caseggiato
del feudo che visualizzava la potenza del feudatario, sia che venisse poi
prodotto nei piccoli palmenti dei nuovi proprietari, rimaneva sempre il
problema più difficile di tutto il lavoro e cioè vendere il prodotto nel più
breve tempo possibile.
La stragrande maggioranza dei contadini non aveva
un’attrezzatura sufficiente per potere stoccare il mosto in attesa di vendere a
prezzi migliori rispetto a quelli offerti sul mercato nel corso della vendemmia
per cui bisognava vendere a tutti i costi.
Ciò anche perché il ciclo lavorativo della raccolta e della
produzione del mosto aveva dei tempi ben stabiliti per cui bisognava lasciare
subito le attrezzature del palmento che erano state impegnate in quanto era
subito pronto un altro produttore per utilizzarle.
Ecco perché già in fase di inizio lavorazione si vedevano
tanti piccoli produttori fare la spola fra il palmento ed i luoghi di vendita
per cercare di assicurarsi che tutto sarebbe filato liscio.
Il proprietario riempiva una o più bottiglie di mosto
mettendo un tappo di vinaccia (raspi e pasta essiccata) che avrebbe permesso
l’ossigenazione del mosto ed evitato che fuoriuscisse dalla bottiglia durante
il trasporto essendo ancora in fase di ebollizione per lo sprigionarsi
dell’anidride carbonica nel processo di fermentazione alcolica.
La prima cosa che faceva era quella di andare in uno dei
tanti improvvisati laboratori di analisi che sorgevano in paese nel periodo
della vendemmia per conoscere il grado alcolico e presentarsi poi dal
compratore per trattare il prezzo del mosto.
Se la contrattazione andava a buon fine allora il contadino
provvedeva al trasporto del mosto fino al luogo di stoccaggio del
commissionario, che di solito era presso il porto di Marzamemi o in un
magazzino nelle vicinanze, perché il trasporto verso le zone di destinazione
avveniva via mare o con ferrovia.
File interminabili di carri trainati da cavalli o muli con
sopra dei contenitori in legno tipo piccole botti, un po’ affusolate per
permettere una migliore sistemazione sul carro e più maneggevoli nel trasporto,
facevano la spola fra il palmento ed i depositi del mosto.
Piccole botti che
venivano chiamate “carratieddi“.
Ad uno ad uno venivano scaricati direttamene nei vagoni
cisterna della ferrovia o nei contenitori all’interno delle navi da una fila di
uomini che sembrava curvarsi ogni giorno di più sotto il peso e la fatica.
Naturalmente con l’evolversi della tecnica e dei mezzi di
trasporto incominciarono a vedersi i primi camion con grosse botti e con le
pompe a stantuffo trasportare il mosto pompandolo fino alle cisterne senza più
“carratieddi” così come gli autocarri
chiamati Ape o le Lambrette con furgoni di legno e compensato.
Quasi tutto il mosto venduto era destinato all’esportazione
in Francia od a Genova da cui prendeva le varie vie che lo avrebbero portato a
svolgere il ruolo di stallone di altri vini meno dotati dal punto di vista
organolettico.
Ma non sempre nella vendita filava tutto liscio ed allora
erano veramente guai. Anche i concessionari sapevano che i contadini non avevano
dove mettere il loro mosto ed una sosta nel comprare avrebbe indotto tutti gli
sventurati, che avevano finito di vendemmiare, a vendere il mosto a qualsiasi
prezzo.
Queste soste, nel corso della vendemmia, avvenivano con
studiata cadenza ed avevano la scusante dei recipienti pieni, delle navi che
arrivavano in ritardo o di qualsiasi altro motivo che potesse permettere di
abbassare i prezzi e costringere i contadini a vendere ugualmente.
Era sempre un lottare contro un qualcosa che li costringeva
a perdurare nella miseria e l’unica speranza di fuggire era rappresentata
dall’emigrazione perché erano solo poche le annate che permettevano, con la
coltivazione della vite, di vivere un anno dignitoso in attesa di una nuova
vendemmia.
Difatti molti partirono verso terre lontane da cui non
fecero più ritorno, ma molti altri, soprattutto di prima generazione,
ritornarono con nella testa la vita di campagna ed in tasca i soldi del duro
lavoro per ricomprarsi, possibilmente, quel pezzo di terra che avevano lasciato
e che ancora era umido del loro sudore e stanco delle loro speranze.
Fu così anche alla fine degli anni settanta quando la
tendenza solitaria ed egoistica dei contadini di Pachino fu messa a dura prova
da continue annate scarse di produzione e povere di introito che, nemmeno
l’invenzione collettiva di aggiungere zucchero al mosto durante la
fermentazione per aumentare il grado alcolico, era riuscita a salvarli.
Anzi si era solo arricchito il commerciante che importava
vagoni di zucchero mentre i contadini, che non sapevano nemmeno le giuste
percentuali di zuccheraggio e si erano spesso fidati del loro intuito, avevano
anche dovuto buttare spesso il loro prodotto perché rovinato dall’ignoranza di
qualsiasi nozione delle tecniche enologiche.
Fu così che quell’annata di vendemmia non vide scagni aperti per comprare né
commissionari, né recipienti utili per lo stoccaggio.
Sembrava che il mosto si dovesse buttare nelle “canalate” delle strade e fu sciopero in
piazza e casino al Municipio.
Il casino arrivò pure alla Regione con un gruppo esasperato
di agricoltori, con politici di accompagnamento ed assessori pronti ad
ascoltare.
Fu un validissimo assessore siracusano leader politico
nella prima Repubblica che affrontò con convinzione e concretezza il problema.
L’unica soluzione era una cantina sociale che potesse
stoccare il mosto e dare poi un contributo agli agricoltori, da parte della
Regione, in attesa di tempi migliori per la vendita.
Ma la storica solitudine dei cittadini del paese del vento,
attaccati alla roba e gelosi della loro stessa ombra, non aveva prodotto niente
che potesse essere condiviso con gli altri.
Non c’era nemmeno l’ombra di una cantina sociale.
Si tentò di cercarne una nella più organizzata Sicilia
occidentale, ma si dovette rinunciare perché già colme e comunque avrebbero
fatto salire i costi perché lontane.
Qualcuno, quasi sommessamente, si ricordò che nel paese
vicino un gruppo di agricoltori aveva dato vita ad un embrione di cantina
perché aveva solo firmato lo statuto da un notaio per tempi migliori.
Si chiamarono di corsa i dirigenti, si fecero aprire i
termini già scaduti previsti dalla Regione per potere conferire il mosto, si
trovarono sul porto di Marzamemi i locali per la macinazione e lo stoccaggio,
si formò la prima cantina sociale di viticultori.
I soldi, arrivati dalla Regione come contributo in acconto
al conferimento del mosto, furono una vera manna dal cielo per pagare i debiti
dell’intero anno e la novità della cantina sociale entrò prepotentemente nei
discorsi e nella vita dei paesani.
L’anno successivo scattò anche l’orgoglio paesano e si
costituì una nuova cantina tutta autoctona che però durò poco perché, non
appena il mosto ebbe un prezzo accettabile sul mercato, rispuntò il sopito
egoismo e la difesa del particolare rispetto al bene comune.
Negli anni ci si scordò pure che il paese del vento era
conosciuto come la patria del vino e tutti, come tanti soldati in fila indiana,
seguirono i coltivatori di nuovi prodotti che facevano guadagnare di più, ma
che snaturarono vecchie conoscenze agricole e portarono ai vecchi cicli
negativi.
Si ripeterono le soste negative conosciute per il mosto e
tutti i problemi di un’agricoltura che, producendo solo un prodotto, non può
essere competitiva.
Ma il vino si è ripresa la sua degna rivincita e nuovi
investitori, nuovi operatori vinicoli anche locali, hanno ripreso la tradizione
vera e caratterizzante del nostro paese con iniziative serie ed al passo dei
tempi con la riproposizione del prodotto vino in tutti i mercati nazionali ed
internazionali.
Adesso ci sono le iniziative, i produttori, le conoscenze e
le intelligenze capaci di non ripetere gli errori del passato frutto
dell’egoismo, della chiusura e dell’ignoranza che hanno prodotto miseria e
incapacità di sviluppo per il nostro paese e per il nostro territorio.
Lavorate in sinergia e le risposte saranno positive.
venerdì 21 ottobre 2022
BROGLI NEI SEGGI PER
IGNORANZA
PATENTINO PER GLI
SCRUTATORI
di Pippo Bufardeci
Nuova elezione e vecchi problemi nei seggi elettorali dove
non si riesce ad assicurare che tutti i seggi rispondano correttamente e nei
tempi previsti per garantire la correttezza dei dati elettorali.
È già successo più volte nella provincia di Siracusa e non
solo, ed è successo anche alle ultime elezioni politiche e regionali.
Oltre 48 sezioni hanno ritardato per giorni ed è intervenuto
il tribunale di Siracusa, per permettere che si conoscesse il risultato
elettorale con conseguente messa in atto di tutte le supposizioni tendenti ad
avvalorare la tesi dei brogli elettorali.
Personalmente sono stato sempre convinto, anche alla luce di
una certa personale esperienza, che gli errori, anche gravi, commessi nei seggi
elettorali da parte di scrutatori e presidenti, non siano dovuti al dolo, ma
all’ignoranza degli stessi sia sul piano personale che della conoscenza ed
applicazione delle farraginose norme che stanno alla base del lavoro dei seggi.
Il reclutamento per sorteggio dei componenti il seggio
elettorale è un’enorme fesseria perché non si tratta di reclutare personale
disoccupato per pulire qualche strada, ma di addetti ad un lavoro difficile,
soggetto a norme comportamentali all’interno dei seggi, di disposizioni
normative elettorali e di norme, anche penali, per i vari soggetti.
A ciò va aggiunto un metodo burocratico di operare molto
complesso e farraginoso.
Non bisogna quindi lasciare un compito così importante per la
democrazia del paese a soggetti che, anche in buona fede, accettano di fare
parte di un seggio elettorale abbagliati dalla modesta remunerazione e privi di
qualsiasi conoscenza del lavoro che andranno a fare.
Naturalmente non ci riferiamo a tutti i componenti dei seggi,
ma solo a quei pochi che, purtroppo, rischiano di inficiare il lavoro dei
molti.
Ecco allora che è giunto il momento di istituzionalizzare
questi soggetti che, all’interno dei seggi, sono dei pubblici ufficiali,
creando un album di coloro che hanno i requisiti per svolgere questo importante
ruolo.
Istituire dei corsi, da parte dei comuni, che spieghino le
normative elettorali ed il lavoro materiale che va svolto all’interno dei seggi
elettorali e le varie leggi che presiedono alle diverse tipologie di elezione.
Effettuare, alla fine, un esame per capire se i soggetti hanno la preparazione
che li possa portare all’iscrizione in un albo comunale degli scrutatori.
Solo all’interno dell’albo che dovrà avere la validità di
almeno tre anni, si può, all’occorrenza, effettuare il sorteggio per scegliere
i componenti dei vari seggi.
Questa proposta può essere concretizzata con una modifica
alla normativa regionale sullo svolgimento delle elezioni che è di competenza
regionale, con la quale si danno i parametri tecnico – giuridici ai vari comuni
e si eviteranno confusione, incompetenza e potenziali brogli.
mercoledì 21 settembre 2022
LA FERROVIA NOTO-PACHINO
FRA ENTUSIASMO E COCRETEZZA
Di Pippo Bufardeci
Da qualche mese c’è, nei
comuni della zona sud della provincia di Siracusa, una gioiosa euforia per il
ripristino della vecchia ferrovia Noto – Pachino.
Anche parecchi
amministratori e forze politiche, impropriamente e senza alcun merito da parte
loro, hanno fatto a gara per prendersi il merito di questa iniziativa che, se
affrontata e realizzata con serietà, potrebbe essere utile per lo sviluppo
turistico ed economico del territorio.
Come si ricorderà, questo
vecchio tratto di ferrovia che ha rappresentato l’ultimo pezzo di binario della
linea ferroviaria nazionale per la sua posizione più a sud di Tunisi, di una
lunghezza di 27,03 chilometri, fu inaugurata nel 1935 e dismessa nel 1985.
In precedenza aveva subìto
altre due interruzioni e precisamente dal giugno 1943 al maggio 1944 per motivi
bellici e dall’ottobre 1954 al marzo 1955 per una violenta inondazione a
seguito dell’alluvione del 1954.
Adesso, su iniziativa del
comparto “ferrovie storiche” dell’ente ferroviario italiano, questo tratto di
ferrovia, è stato inserito, per una somma totale di 60,5 milioni a vantaggio
delle ferrovie storiche siciliane che sono state individuate in quattro
segmenti e cioè la Noto – Pachino, la Agrigento bassa – Porto Empedocle, la
Alcantara – Randazzo e la Castelvetrano – Porto Palo di Menfi.
Il finanziamento avviene
nell’ambito del “Fondo complementare del PNRR per complessivi 373 milioni di
Euro.
Già basta percorrere la
strada Noto – Pachino per accorgersi che sono iniziati i lavori di sfalcio e
taglio della vegetazione da anni imperante sul tratto ferroviario dismesso.
Secondo quanto riportato
anche da Notonews il comune di Noto, tramite l’ufficio tecnico, su parere dell’ufficio
legale del comune, aveva ritirato, in autotutela, il provvedimento di
ripristino del percorso ferroviario.
Ciò perché pare non ci
sia un progetto frutto di un reale sopralluogo della situazione effettiva del
percorso ferroviario perché la parte tecnica si baserebbe solo sull’istanza
dell’Ente Ferrovie Nazionale secondo input teorici che non sarebbero stati
verificati sul posto.
Vi è anche un problema di
insufficienza delle somme stanziate perché riguarderebbero tutti e quattro i
tratti siciliani interessati e che dovrebbero interessare, non solo gli aspetti
strutturali, ma anche le locomotive e quanto altro necessario all’efficienza
del tratto ferroviario.
Ma la cosa più grave
sarebbe rappresentata dall’abusivismo, nel tratto di Noto Marina, delle
numerose villette esistenti che metterebbero a rischio la sicurezza del
percorso ferroviario in quanto molte di queste villette risulterebbero
costruite a poca distanza dai vecchi binari che, in alcuni tratti, quasi
lambiscono.
Ma ancora più complesso è
l’altro aspetto giuridico, burocratico ed operativo rappresentato da tutto
quanto è necessario per dirimere tutti i problemi riguardante l’abusivismo
nella zona interessata.
Il comune di Noto,
interessato per lunghi tratti del percorso ferroviario in quanto proprietario
di quasi tutto il territorio su cui insiste il percorso ferroviario stesso, ha
riproposto l’atto deliberativo precedentemente ritirato in autotutela per
evitare il blocco dei lavori e sta lavorando alla ricerca di soluzioni per
risolvere l’intera tematica legata all’abusivismo delle costruzioni lungo il
vecchio percorso ferroviario.
Una volta risolti tutti i
problemi tecno-giuridici, la vecchia ferrovia ritornerebbe a nuova vita e
potrebbe essere veramente utile alla zona.
Ma anche qui è necessari
riportare la situazione alla reale motivazione del suo finanziamento senza voli
pindarici frutto di fantasia che di reale conoscenza delle cose.
Comunque nei tratti non
interessati alle problematiche che potrebbero ritardare l’opera e fino alla
vecchia stazione di Pachino che ritornerebbe ad essere l’estrema punta
ferroviaria d’Italia, i lavori stanno continuando regolarmente.
Bisogna ricordare che
qualche decennio fa, oltre a varie proposte di ripristino del tratto
ferroviario fra cui anche la mia, che chiedeva il prolungamento del servizio
estivo del treno Siracusa –Fontane Bianche fino a Marzameni come una specie
metropolitana di superfice, vi è stato un progetto redatto dal comune di Noto
per trasformare il tratto ferroviario in pista ciclabile utilizzando
finanziamenti europei.
Allo stesso modo, da
qualche anno l’associazione per il ripristino della Noto-Pachino ha sostenuto
la proposta del suo nuovo funzionamento secondo le caratteristiche operative
che aveva prima della soppressione.
Proposte interessanti, ma
difficilmente fattibili anche se quella della pista ciclabile era più
istituzionale ed inserita nel contesto di un periodo favorevole alle piste
ciclabili, per quello che è dato sapere fu tenuta in debito conto, ma non
finanziata.
La realtà attuale è
quella di un finanziamento ottenuto dal settore treni storici dell’Ente
ferroviario italiano che, una volta portato a soluzione, deve rispondere ai
criteri della legge del finanziamento e cioè di valenza turistica e di
stagionalità del suo periodo di operatività.
Ogni discorso di fantasia
di proposte da parte di singoli, associazioni o politici non in linea con le
finalità reali della legge e del finanziamento sono solo, al momento, ululati
alla luna.
Quindi auguriamoci che
l’ente ferroviario porti a compimento, nel più breve tempo possibile, il
progetto che ripropone il riutilizzo per fini turistici, del tratto già
dismesso della Noto-Pachino e possa, al più presto, dare i suoi benefici frutti
nell’ambito del settore turistico e dell’economia ad esso collegata.
Dopo sarà più facile
pensare a realizzare altri modi di utilizzo ancora più utili nell’ambito del
sistema più articolato che il territorio offre e necessita per rendere le sue
strutture di sostegno al territorio ed alla sua economia ancora più valide e
più indirizzate a dare risposte alla sua complessità.
Siracusa 02/09/2022
Pubblicato sul giornale
Timeout di Siracusa nel n° 5 del 17
settembre 2022
giovedì 1 settembre 2022
INTERVISTA A FARAONE DA: BUTTANISSIMA SICILIA
L’offesa dei paracadutati
"In Sicilia per rubare i voti: la
gente neanche li conosce". La crociata di Davide Faraone. "Musumeci?
Inesistente"
PAOLO MANDARÀ
I paracadutati non li sopporta più
nessuno. Neanche Davide Faraone, presidente dei Senatori di Italia Viva, che ha
scelto di candidarsi nel collegio proporzionale di Palermo, alla Camera, per
rimettere piede in parlamento. Lo farà in quella che è stata la sua casa da
sempre (è cresciuto nel quartiere Cruillas, poi ha frequentato San Lorenzo e lo
Zen), nonostante le difficoltà dettate da un esperimento – quello del Terzo
Polo – che in Sicilia ha bisogno di attecchire: “Sono palermitano e mi candido
a Palermo, perché no? So che è un’eccezione – esordisce il braccio destro di
Matteo Renzi -. Ma per me è un fatto di rispetto nei confronti dei miei
concittadini. Il Terzo polo andrà alla grande, ne sono certo”
Su
Facebook ha inaugurato la rassegna dei paracadutati nell’Isola. Ma i
paracadutati ci sono sempre stati. Perché stavolta hanno un ‘peso’ diverso?
Forse a causa della riduzione del numero dei parlamentari?
“Mai fenomeno è stato così vergognoso.
Ci saranno pochissimi siciliani in parlamento. Questi paracadutati dal Nord non
rubano un seggio ad un siciliano, rubano la rappresentanza ai siciliani. Io
potevo candidarmi in qualsiasi parte d’Italia, potevo scegliere posizioni più
comode, ho scelto di candidarmi nei luoghi dove sono conosciuto e riconosciuto,
nei luoghi dove ho fatto le scuole, dove ho fatto politica, dove ho costruito
relazioni. Qui tutti hanno il mio numero di telefono e possono anche suonare al
mio citofono di casa, prima e dopo le elezioni”.
Parlando
di Annamaria Furlan, ex segretaria nazionale della Cisl, Provenzano
(vicesegretario del Pd) ha detto che per fare gli interessi della Sicilia non
basta essere siciliani: concorda?
“Ma che cavolata è questa? È ligure la
Furlan? Le dessero il seggio in Liguria. Poi ci sono i casi semmai di quelli
nati in Sicilia, che non hanno mai fatto politica nel territorio siciliano ma
sono stati chiusi nei centri studi romani, come Provenzano”.
Passiamo
ai paracadutati eccellenti: da Bobo e Stefania Craxi a Michela Vittoria
Brambilla. Passando per la compagna di Berlusconi. Ce n’è uno più scandaloso di
un altro?
“Ma vi rendete conto che questi non
verranno nemmeno a chiedere il voto in campagna elettorale per la vergogna?
Sono uno più vergognoso dell’altro. Poi la Brambilla ha il 99,2% di assenze, ha
partecipato negli ultimi 5 anni a 95 votazioni su 11.707. Hanno la faccia di
bronzo già a ricandidarsi, figuriamoci a farlo lontano anni luce da casa. La
Fascina oltre ad essere la compagna di Berlusconi, residente ad Arcore, è nella
top 15 degli assenteisti. Anche lei non la vedrete in campagna elettorale,
figuriamoci dopo”.
Un
altro strano fenomeno, molto accentuato in questa vigilia, è la ‘migrazione
elettorale’. In Sicilia sono tutti alla ricerca della migliore agenzia di
collocamento per essere eletti. Così vengono meno le idee, le battaglie, i
valori, l’appartenenza. Perché?
“Eh già, mi lasci solo confessare lo
sdegno che sto provando nel vedere il valore della politica messo sotto i piedi
da chi cambia partiti con la stessa frequenza con cui cambia le mutande. Credo
che queste elezioni regionali siano il più grande spot per l’antipolitica ed il
qualunquismo”.
Anche
voi del Terzo Polo schierate alla presidenza Armao, che fino a ieri militava in
Forza Italia e che tuttora rimane nel governo Musumeci da vice-presidente e
assessore all’Economia. Non le pare strano?
“Noi stiamo aggregando tutti i moderati
che non vogliono essere schiavi del sovranismo della Meloni e del populismo di
Letta che insegue Conte, Fratoianni e Di Maio. In tanti stanno costruendo
questo terzo polo insieme a noi, dalla Carfagna alla Gelmini. Era strano che
fossimo in partiti diversi in passato, non che siamo nella stessa aggregazione
adesso”.
Qual
è la vostra valutazione complessiva sul governo Musumeci?
“Lei ricorda i cinque anni del governo
Musumeci per cosa? Me ne dica una realizzata, l’ascolterò con piacere. Io non
ricordo nulla, zero”.
Su
Schifani, il favorito della vigilia, ci sono stati giudizi poco lusinghieri da
parte di Conte, che lo ha definito “il peggio della politica” e di Claudio Fava,
che l’ha definito un “candidato opaco”. Qual è la sua opinione?
“Una brava persona con cui ho avuto il
piacere di collaborare in questi cinque anni in Senato, siamo su fronti
diversi, ma lo rispetto”.
I
5 Stelle sbandierano un primato nei sondaggi, almeno qui in Sicilia. Una
possibile chiave di lettura rimane il Reddito di cittadinanza: crede anche lei,
come Calenda, che vada confermato solo a chi non è in condizione di lavorare? E
gli altri?
“Chi non può lavorare, chi vive una
condizione di disagio e povertà deve essere assistito dallo Stato, senza se e
senza ma. Chi può lavorare deve essere aiutato dallo Stato a trovare lavoro e
formarsi per trovare un buon lavoro e ben retribuito, non può stare a casa
pagato da chi paga le tasse facendosi il mazzo, anche in questo caso senza se e
senza ma”.
Qual
è l’obiettivo del Terzo Polo alle Politiche? Calenda ha detto che se finite
oltre il 10% il centrodestra non vincerà e sarà necessario richiamare Draghi.
Secondo lei non è un rischio chiedere agli elettori di votarvi per imporre un
altro governo “ibrido” o di unità nazionale?
“Draghi non è un ibrido, è il meglio che
questo Paese può esprimere. È l’uomo con il miglior prestigio internazionale e
siccome parecchi dei nostri guai vengono da fuori, avere lui è la migliore
garanzia possibile per gli italiani. Draghi è la migliore espressione del
nostro patriottismo, altro che la Meloni”.
Ci
sono i margini per risolvere, o tamponare, la crisi energetica prima di andare al
voto? Sembrerebbe che lo vogliano tutti.
“Il 6 settembre torneremo in Senato
proprio per questo. La campagna elettorale va messa da parte di fronte alle
emergenze del Paese. Servono risorse per sostenere imprese e famiglie, servono
provvedimenti per una celerissima autonomia energetica”.