LA FESTA DEL VINO,
STORIA E TRADIZIONI A PACHINO
IL MIO INTERVENTO PER PERBACCO DEL 05/01/2023
INTRODUZIONE
Bisogna
essere grati ed apprezzare il lavoro che ha svolto e continua a svolgere il
gruppo di amici pachinesi che, con l’associazione “Vivi Vinum Pachino”, lavora
per riportare alla sua giusta valenza il ruolo sociale, storico, economico e
identitario che il vino ha rappresentato, negli anni, per il comune di Pachino
e per i suoi cittadini.
L’organizzazione
della festa della vendemmia, di quella di San Martino purtroppo osteggiata dal
forte maltempo e di PerBacco non è quindi un fatto solo di aggregazione
folcloristica o di cittadini in una logica di divertimento.
Essa
ha la fondata ambizione di essere momento di riappropriazione e di
riproposizione di una identità economica che ha caratterizzato il nostro
passato, ma che può essere ancora valida per le nuove generazioni se si saprà
coniugare con la nuova realtà e la si saprà immettere in un nuovo contesto
sociale, turistico e storico che possa dare un contributo notevole nell’ambito
economico ed occupazionale del nostro paese.
Ecco
allora che il ricordo attraverso la festa si trasforma in semenza di sviluppo e
di aiuto per la crescita di nuove generazioni che possono trovare lavoro e
riscontro economico personale per una vita più dignitosa e per un contesto
sociale comunale più inserito nelle dinamiche serie di sviluppo duraturo
dell’intero territorio.
Gli
amici dell’Associazione Vivi Vinum Pachino hanno le idee chiare su ciò che è
necessario fare e vanno quindi sostenuti dai cittadini e dalle istituzioni
perché si concretizzi un disegno
strategico di sviluppo che, partendo dal vino, può rigenerare un’intera
economia locale.
Per concretizzare
penso che al vino
vada aggiunta la valorizzazione del contesto storico e delle nostre tradizioni
con percorsi che valorizzino i nostri numerosi palmenti che ancora si trovano
nel perimetro urbano e si dia la dignità e l’importanza che merita al Museo del
Vino.
Bisogna costituire i percorsi enogastronomici
che ripropongano la bontà della nostra cultura gastronomica;
Con
la disponibilità delle varie cantine locali bisogna incrementare la
degustazione vinicola;
Riappropriamoci
del marchio Vino nero Pachino e Vino Rosso Pachino che caratterizzi seriamente la
provenienza territoriale che è quella del territorio pachinese e del lavoro
svolto dai contadini e dai produttori di Pachino anche in zone a coltura
vitivinicola che, pur non facendo parte del territorio di Pachino, sono stati
curati, lavorati e resi produttive dai pachinesi.
Bisogna
anche capire e fare capire ai nostri amministratori ed ai cittadini
l’importanza strategica sul piano culturale e di sviluppo del Palmento Di
Rudinì che non può recitare il ruolo, sul quale si sta avviando per colpevole
apatia, di retaggio del passato.
Infine,
e non per ultimo, impostare una sinergia fra la produzione locale e la vendita
del ciliegino con la produzione e la vendita del vino di Pachino. Si potrebbe
iniziare con una pubblicità combinata per cui le cassette del ciliegino
potrebbero evidenziare, con una scritta, un riferimento al nostro vino e le
confezioni del vino un riferimento al ciliegino.
Bisogna
lavorare insieme, sinergicamente ed abbandonare i residui retaggi del pachinese
individualista che, nei nostri tempi, non ha generato sviluppo né sociale né
culturale né economico.
Ritengo
che la strada tracciata dagli amici di Vivi Vinum Pachino sia la migliore
possibile per cercare di cambiare in meglio la prospettiva di sviluppo del
nostro paese e dei suoi cittadini per cui, tutti insieme, rimbocchiamoci le
maniche, facciamo finalmente squadra e collaboriamo seriamente affinché questo
progetto ambizioso, degli amici di Vivi Vinum Pachino e delle cantine aderenti
possa vedere la luce nel più breve tempo possibile.
Di Rudinì
Non
posso ulteriormente non evidenziare, sia pure brevemente, il forte rischio che
sta correndo il palmento Di Rudinì di rimanere un rudere come i tanti che si
trovano nel nostro territorio frutto dell’incuria e dell’incapacità di noi
pachinesi di essere propositivi.
Non
voglio lanciare anatemi contro questa amministrazione o altre che hanno gestito
il nostro comune, ma soltanto favorire la volontà espressa da molti, che hanno
lavorato anche gratuitamente, per rendere dignitoso questo importante monumento
storico – sociale per farlo diventare l’emblema del lavoro dei nostri nonni e
dei nostri padri in un nuovo contesto di vitalità culturale, turistica,
economica ed identitaria.
Non
mi preme nemmeno ricordare che il Di Rudinì ristrutturato e consegnato al
patrimonio comunale è il frutto dell’esito positivo del PIT 9 denominato
ecomuseo del mediterraneo con finanziamenti europei in un contesto di sinergia
con i comuni della zona sud e con un lavoro costante da parte
dell’amministrazione Adamo di cui ero l’assessore di riferimento dell’ecomuseo
occupandomi di sviluppo economico e scegliendo, d’intesa con il sindaco Adamo,
proprio il vecchio palmento Di Rudinì quale progetto da realizzare come comune
di Pachino.
Voglio
solo dare voce a quanti, cominciando proprio dall’associazione Vivi vinum
Pachino ed altri, hanno dato la loro disponibilità a dare supporto
all’amministrazione comunale per rivitalizzare con urgenza questo patrimonio
storico che appartiene a tutta la comunità pachinese.
Ciò
anche in considerazione della motivazione banale che sembra stia alla base
della chiusura che è l’assenza di corrente elettrica per mancanza di pagamento
della bolletta.
Naturalmente
non facciamo nostra l’altra motivazione che viene sussurrata in paese che
vedrebbe qualche associazione della provincia di Catania interessata a svolgere
ruoli di gestione di vari servizi di competenza comunale fra cui forse anche la
gestione del Di Rudinì.
Suggerisco
all’amministrazione comunale di fare chiarezza su questo importante problema e
di coinvolgere le associazioni disponibili di Pachino e quanti pachinesi
possono dare il loro contributo affinché con la maggiore trasparenza possibile
ci si riappropri di questo importante bene comune.
ADESSO PARLIAMO, IN
MODO RAPIDO, MA SPERO ESAUSTIVO, DELLA TRADIZIONE STORICA DELLA VENDEMMIA E DEL
VINO DI PACHINO
Possiamo dire che la
vendemmia pachinese iniziava già la sera dell’ultima domenica della festa della
Madonna quando, alla fine dei fuochi d’artificio della mezzanotte, si sentiva
sempre una voce, fra la gente, che diceva: Ora pajativi i debiti.
Sembrava una frase di
scherno, ma era la visione plastica che intercorreva fra le famiglie pachinesi
ed il rito della vendemmia inteso come inizio di speranza o di future pene per
le famiglie e per un intero paese.
Tutta la vita
sociale, economica, lavorativa di un paese era legata all’unica fonte di
reddito, annuale, che caratterizzava il quadro economico di un intero
territorio.
Ogni cosa veniva
rinviata a dopo la vendemmia.
Si pagava il
sostentamento di un intero anno dopo la vendemmia, ci si sposava dopo la
vendemmia, le attività onerose si rinviavano dopo la vendemmia, si rimaneva in
paese o si emigrava dopo la vendemmia.
Ma adesso vediamo
come si svolgeva, di fatto, la vendemmia.
LA CIURMA
La sera prima della raccolta dell’uva, per formare la
ciurma dei raccoglitori, ci si recava nella piazzetta del mercato dove sotto i
lastroni di marmo dei banconi del pesce, si assiepavano robuste braccia di
braccianti locali ed altre venute dai paesi vicini per partecipare ai lavori
della vendemmia
I proprietari delle vigne da vendemmiare guardavano ad uno
ad uno quella mercanzia da lavoro e scrutavano muscoli, corporatura e capacità
dinamiche che ne avrebbero fatto un buon “vignignaturi”.
Venivano scartati quelli troppo magri o troppo grassi
nonché quelli dall’aspetto malandrino o “sciarrino”
che, sicuramente, sarebbero stati incontrollabili ed avrebbero creato
scompiglio con gli altri abbassando così la capacità lavorativa.
Era d’uso che per tutto il periodo della vendemmia intere
famiglie si trasferissero dai paesi vicini con attrezzature, carri e masserie
per partecipare al guadagno del lavoro della “ vignigna “ con grandi sacrifici dormendo sotto i carri o negli
angoli delle case senza alcuna sicurezza igienica e spesso sottoposti ai
capricci del tempo.
Gli uomini, ma anche le donne, venivano “scartate” scelte ad uno ad uno fino al
completamento del numero sufficiente di persone che avrebbero costituito il
gruppo “la ciurma“ necessaria alle
esigenze del contadino o del caporale che assoldava gli uomini.
Quelli scartati potevano solo sperare di essere chiamati
per qualche caso di emergenza da parte di qualcuno che aveva la necessità di
sostituire qualche lavoratore non più disponibile o di svolgere i lavori della
vendemmia con una certa fretta o perché aveva avuto all’ultimo momento la
disponibilità del palmento.
IL PALMENTO
Il palmento era importante che fosse disponibile nei giorni
in cui l’esperto contadino riteneva si dovesse vendemmiare per la giusta
maturazione dell’uva.
Sbagliare la giornata di vendemmia avrebbe comportato anche
danni rilevanti per il raccolto e complicato le possibilità di vendita.
Non bisognava anticipare la giornata della vendemmia
rispetto alla giusta maturazione dell’uva né si doveva differire di molto.
Poiché si trattava di un mosto o vino destinato ad avere
una colorazione molto nera ed una corposità capace di tagliare vini meno dotati
per rendere la soluzione idonea per rispondere alle esigenze del mercato, la
vendita teneva presente alcune qualità organolettiche che erano rappresentate
dalla gradazione alcolica e dalla quantità di zucchero presente nel mosto.
Più la gradazione alcolica era alta e nel giusto rapporto
con il grado zuccherino e più alto era il prezzo che veniva pagato.
Difatti, nei locali della trattativa fra la domanda e
l’offerta che venivano chiamati “ scagni
“, il prezzo si stabiliva per grado alcolico e quello per la salma, ( unità di misura di vendita
corrispondente a circa 96 litri ), era il risultato della moltiplicazione fra
il prezzo di un grado ed il totale dei gradi che esprimeva quella partita di
mosto.
Quindi la soluzione ottimale per i contadini era quella di
avere un’alta gradazione con buona presenza di zucchero senza però che fosse a
discapito della quantità prodotta.
Da qui se ne deduce che la scelta della giornata utile per
effettuare la raccolta dell’uva diventava strategica ai fini del guadagno
soprattutto se si era in presenza di una produzione abbastanza rilevante.
Però bisognava prenotare con largo anticipo l’utilizzo
delle attrezzature del palmento per cui, con il consenso dei gestori del
palmento, alcuni mettevano in atto delle azioni di furbizia tendenti a favorire
gli amici, il proprietario degno di rispetto a discapito dei piccoli e poveri
disgraziati senza alcuna tutela.
Fra queste furbate vi era quella di prenotare più volte il
palmento ed in giornate diverse per potere poi scegliere quella più utile
oppure dichiarare, da parte dei gestori, di avere esaurito tutta la
disponibilità della settimana, ma lasciare dei giorni inutilizzati per le
esigenze degli amici.
Se vi erano delle giornate non utilizzate si mettevano,
all’ultimo momento, a disposizione di chi non aveva avuto la fortuna di essere
iscritto nell’elenco ufficiale ed era così costretto a vendemmiare in base alla
disponibilità del giorno e non del grado di maturità dell’uva.
LA GIORNATA DELLA
VENDEMMIA
Dopo essersi alzati ancora con il buio della notte, finalmente
gli attori della vendemmia arrivavano nella vigna che doveva essere vendemmiata.
Si incominciava la giornata con l’ammucchiata di un buon
quantitativo di grappoli d’uva sui teloni che venivano stesi a terra
nell’attesa di caricare i tini sui carri che avrebbero trasportato il tutto nei
palmenti.
Non era consentito perder tempo ed i lavoratori, sotto il
controllo dello sguardo vigile del proprietario o del capo ciurma incaricato
della sorveglianza, si dividevano i filari di viti da vendemmiare ed
incominciavano la raccolta dei grappoli che venivano posti in recipienti dette
“cruvidduzzi” in quanto le più adatte
per il trasporto fino al punto base di raccolta nei teloni o direttamente nella
“tina” sopra il carro.
Questi recipienti, che erano di diverse dimensioni in base
al tipo di prodotto da trasportare od anche dalle distanze da effettuare,
avevano nomi diversi. Quelli di piccola capacità si chiamavano “crovidduzzi” di media capacità si
chiamavano “cruveddi” e quelle ancora
più grandi “cufini”.
Esse erano costituiti da un fondo intrecciato di verghe di
ulivo da cui si alzavano delle altre verghe che venivano intersecate con canne
tagliate in lunghi listelli in modo da costituire un involucro capace di
reggere e proteggere l’uva, ma anche qualsiasi materiale si volesse
trasportare.
La parte superiore del contenitore era costituita da una
corona intrecciata di verghe d’ulivo in cui si incastravano quelle che partivano
dal fondo dando così consistenza e delimitazione a tutto il manufatto.
I vendemmiatori della zona del modicano erano preferiti
agli altri perché, oltre ad essere valenti lavoratori, erano dotati di una “cruvedda” più grande che, a parità di
viaggi dalla vite al punto di deposito, permetteva il trasporto di una maggiore
quantità di uva.
Spesso gli altri vendemmiatori, soprattutto gli studenti
prestati alla vendemmia, per non sfigurare nei confronti dei compagni e per
essere pronti ad incolonnarsi assieme agli altri per avviarsi verso il
deposito, ricorrevano al trucco di posare in verticale, dentro la “cruvedda” i primi grappoli d’uva
ottenendo l’effetto di riempire subito la “caputa”
anche trasportando una minore quantità di prodotto.
Per tutta l’intera giornata i vendemmiatori avrebbero
instancabilmente percorso i lunghi filari delle viti per raccogliere e
depositare l’uva iniziando dal posto più lontano dal luogo di raccolta.
Questo permetteva di
attutire meglio la maggiore stanchezza, che man mano si faceva sempre più
sentire, con un minore percorso della distanza fra raccolta e deposito.
LA PAUSE PER IL
MANGIARE
Il ritmo continuo della raccolta dell’uva trovava, nel
corso della giornata, delle brevi pause per il mangiare che di solito avvenivano
verso le dieci per la colazione e verso le quattordici per il pranzo.
Sembrava che tutti i datori di lavoro si fossero messi
d’accordo nel dare ai vendemmiatori lo stesso tipo di mangiare.
La colazione era rappresentata da un pezzo di pane con
formaggio o qualche fetta di mortadella quasi trasparente, mentre il pranzo
oltre al pane prevedeva delle olive e pomodori salati, anche se la parte del
leone la facevano le sarde salate e il tonno più comunemente chiamata “tunnina” anch’esso rigorosamente salato.
Nei giorni della vendemmia era un gran via vai dalla
bottega situata nel vecchio mercato che tutti chiamavano “ri Vartulieddu”, ma che, in realtà, era il nome un po’ storpiato di
“viertulieddu” da “viertula” che era un’antica bisaccia di
stoffa che il padre dei titolari della bottega portava sempre a tracolla senza
liberarsene mai.
Questa bottega
vendeva quasi esclusivamente prodotti salati con sale grosso della salina di
Morghella.
Per quei poveri disgraziati non doveva certamente essere
una cura adatta per la propria salute.
La sarda si puliva dal sale e si involtava in una foglia di
vite molto ampia per evitare di tenerla direttamente con le mani e si alternava
ai morsi che venivano dati al pane.
La “ tunnina” si
asciugava della salamoia pressandola fra due pietre o nello stipite delle porte
ed avvolgendola poi nella solita foglia.
Il tutto imbevuto di poco vino, perché bisognava continuare
a lavorare, e molta acqua tirata dal pozzo con i secchi e conservata sotto gli
alberi o sotto le stesse viti in recipienti di creta detti “bummuli” o, se più capienti, “quartari”.
Solo la sera, se il lavoro continuava per parecchi giorni
ed il proprietario aveva la casa di campagna attrezzata, le donne potevano
preparare la pasta asciutta con salsa essiccata (strattu) per tutti o peperoni, olive e cipolle arrostite che
venivano servite nelle pali concave dei fichidindia visto che i piatti erano
una rarità che solo pochi potevano permettersi.
Quando la “tina”
posizionata sul carro si riempiva d’uva raccolta ed era pronta per essere
portata al palmento, vi era sempre qualcuno, scelto fra i più robusti, che dava
una prima pigiata per abbassare la massa dell’uva e permettere l’aggiunta di
altra uva in modo che i poveri animali potessero portarne un quantitativo
maggiore per viaggio.
IL PALMENTO
Il palmento era situato, di solito, all’interno del grande
caseggiato dove si svolgeva tutta l’attività del feudo in grandi capannoni di
pietra con un ampio portone d’ingresso e molte finestre posizionate nei muri
laterali e ciascuna in corrispondenza di un’aia per pigiare l’uva.
Il tetto era costituito da grandi e robuste travi di legno
su cui si poggiava un insieme fitto di canne e gesso che tenevano robuste
tegole.
Molti di questi tetti avevano anche delle lunghe sbarre di
ferro che servivano a rafforzare l’impianto in legno, ma anche da base dove
inserire le carrucole che avrebbero permesso, attraverso corde o liane, di
alzare o trasportare pesanti attrezzi del palmento con più facilità o appendere
un particolare tino di legno detto “campana“
per fare scolare e raccogliere l’ultimo mosto dalla poltiglia rimasta nel fondo
del grande contenitore in muratura posto
sotto l’aia e detto “ rituornu “.
In tutti i lati della costruzione, ad eccezione di quello
dove era situato il grande portone d’ingresso, vi erano gli appositi siti dove
avveniva la trasformazione dell’uva in mosto.
Dalla finestra laterale si accedeva ad uno spazio detto aia
dove veniva scaricata l’uva e dove si trovava un robusto “pistaturi” a torso
nudo, con pantaloncini e scarponi da alpino che maciullava i grappoli d’uva
rendendoli poltiglia o “ pasta” come
si chiamava nel gergo dei contadini.
Per darsi più forza si aggrappava ad una corda o liana
intrecciata di paglia che penzolava dal basso soffitto del palmento.
Una volta ridotta l’uva in poltiglia, con una ampia pala di
legno, si scaricava tutto in un contenitore sottostante di muratura, detto “
rituornu “ che aveva, in parte, come
tetto la stessa aia, ma più profondo e di dimensioni maggiori per permettere,
in seguito, di potere estrarre nuovamente l’impasto senza sbattere la testa nel
soffitto.
Fra l’aia – soffitto e questo contenitore “ rituornu” vi era un buco con un grosso
tubo attraverso il quale passava direttamente nel “rituornu” il mosto già formatosi nell’aia stessa sotto il peso dei
piedi del “ pistaturi”.
Nel pavimento del palmento, in corrispondenza del “rituornu” vi era un pozzo detto “ fuossu” dove veniva conservato
momentaneamente il mosto in attesa della vendita o del suo trasferimento nel
deposito del proprietario.
La permanenza della pasta, come veniva chiamata la
poltiglia d’uva pestata assieme ai raspi, all’interno del “rituornu” era importante al fine del tipo di mosto e di vino che si
voleva produrre.
Se il tutto si faceva fermentare insieme per almeno
ventiquattro ore, allora si otteneva un vino di colore rosso scuro che poteva
trovare mercato direttamente con i consumatori abituati ad un vino pastoso e
dal sapore forte.
Se rimaneva per quarant’otto ore allora si produceva un
vino nero che serviva quasi esclusivamente per il taglio degli altri vini meno
dotati di proprietà organolettiche.
Vi era un altro tipo di vino molto ricercato, ma di
produzione limitata perché serviva quasi esclusivamente per la disponibilità del
proprietario o di qualche buongustaio, che non pensava al grado zuccherino, ma
al sapore soave e leggero che lasciava in bocca.
Veniva chiamato “ primo
fiore” o “pistammutta” ed era
ottenuto direttamente nell’aia prima di dare corso alla pigiatura senza quindi
pressione dei piedi e raccolto in otri
di legno detti “carratieddi” per
essere portato subito nelle botti ove rimaneva a fermentare.
Una volta deciso il tipo di mosto da produrre e terminato
il relativo tempo di permanenza all’interno del “rituornu” si liberava il mosto dalla pasta rimanente che, per
essere spremuta fino all’ultima goccia, si metteva nel “cuonzu”.
Si trattava praticamente di un torchio composto da una base
in ferro circolare con scalmanatura e buco d’uscita per la raccolta del mosto,
su cui si poggiavano, incastrate fra loro con leve di ferro, due semicerchi di
listelli di tavole verticali con una piccola fessura fra l’una e l’altra che
permetteva lo scorrere del mosto man mano che si aumentava la pressione di
spremitura.
Questa pressione avveniva attraverso la posa di grosse
travi di legno secondo un posizionamento alternato in verticale ed orizzontale
fino ad arrivare nella parte alta del “cuonzu”
in direzione dell’altezza dei listelli di tavola verticali.
Al centro del “ cuonzu”
vi era una grossa vite continua con una
pressa che avvolgendosi ad essa pressava
l’impasto, attraverso le grosse travi, facendo uscire quanto più mosto
possibile.
Il tutto con l’aiuto che i contadini ricevevano nel
pressare da robuste sbarre di ferro che permettevano, inserite in apposite
scanalature dell’ingranaggio, l’abbassamento della pesante pressa.
Naturalmente all’interno del palmento era tutto un caos per
il continuo andirivieni di tanta gente intenta a svolgere le operazioni della
propria vendemmia assieme ai rappresentanti del padrone dei terreni del feudo
che controllavano affinché nessuno facesse il furbo ed eclissasse qualche salma
di mosto a proprio vantaggio.
Certamente usare il termine feudatario può fare storcere il
naso a qualcuno che ha studiato la storia solamente sui libri e non si è
accorto che, di fatto, il feudalesimo, inteso come organizzazione sociale e
come rapporti fra il proprietario
terriero ed i contadini che utilizzavano i terreni, è durato fino al ventesimo secolo.
Fino ad oltre la metà del ventesimo secolo l’organizzazione
delle campagne, nelle nostre zone, rispecchiava ancora la concezione feudataria
che vedeva il padrone da una parte ed i contadini dall’altra.
Il primo esercitava il potere decisionale su tutto ed il
secondo doveva solo adattarsi e lavorare per non perdere l’utilizzo di quel
pezzettino di terra che comunque rappresentava l’unica possibilità di
sostentamento per la propria famiglia.
Difatti le terre del padrone venivano divise in piccoli
appezzamenti che venivano dati ai contadini secondo il sistema della mezzadria
o del “terraggio” che era
praticamente un canone fisso generalmente in natura indipendentemente dalla
coltura e dalla quantità prodotta.
Se il rapporto era a
mezzadria il proprietario metteva il terreno e metà delle semenze oppure dei
concimi necessari per la produzione per avere metà del raccolto.
Quello a terraggio
prevedeva che al proprietario andasse una quantità prestabilita di salme di
mosto se il terreno era adibito a vigneto oppure di frumento o di altre
produzioni che, in ogni caso, andavano concordate poiché il proprietario
esercitava il diritto di vigilare affinché quel pezzettino di terreno fruttasse
nel miglior modo possibile.
In un certo qual modo, sia pure limitato e controllato, il contadino
si assumeva solo per sé un certo rischio d’impresa in quanto ciò che era stato
stabilito andava consegnato al proprietario indipendentemente dalla quantità
prodotta.
I piccoli proprietari si potevano contare sulle dita di una
mano ed incominciarono a prendere il sopravvento solo al verificarsi di alcuni
fatti d’ordine politico, economico e sociale.
Quello politico fu rappresentato dall’attuazione della
riforma agraria che aveva l’intento di creare una classe di piccoli proprietari
terrieri, ma che, di fatto, assegnò solo dei terreni in zone difficilmente
produttive in quanto i grandi latifondisti si liberarono volentieri solo dei
loro terreni improduttivi o di difficile accesso per lavorarli.
Eppure essa fu ugualmente importante perché rafforzò ulteriormente
la convinzione che fosse veramente possibile una diversa organizzazione del
lavoro nelle campagne dando la speranza a molti contadini di potere diventare,
in un futuro non molto lontano, anche proprietari del pezzo di terra che
coltivavano. Quella di natura economica investì i grandi proprietari terrieri
che non riuscivano più a gestire i loro fondi con un minimo criterio di
economicità.
Anche le calamità
naturali e le malattie si abbatterono in modo particolare sulle produzioni
agricole assieme al conseguente abbandono del lavoro di bracciantato di molti
contadini che preferirono emigrare o riciclarsi soprattutto nell’edilizia e
nelle fabbriche del nord che incominciavano a vivere il periodo storico che va
sotto il nome di miracolo economico.
Tutto questo portò ad una maggiore disponibilità alla
vendita di grandi appezzamenti di terreno ed anche di interi feudi che venivano
divisi in piccole proprietà di terra che spesso compravano gli ex contadini
che, grazie all’emigrazione od al lavoro in altra parte d’Italia, avevano la
disponibilità economica e la mentalità del riscatto sociale acquistando quasi
sempre il vecchio terreno che avevano posseduto in modo subalterno al
feudatario. Sia che il mosto venisse prodotto all’interno del grande caseggiato
del feudo che visualizzava la potenza del feudatario, sia che venisse poi
prodotto nei piccoli palmenti dei nuovi proprietari, rimaneva sempre il
problema più difficile di tutto il lavoro e cioè vendere il prodotto nel più
breve tempo possibile.
La stragrande maggioranza dei contadini non aveva
un’attrezzatura sufficiente per potere stoccare il mosto in attesa di vendere a
prezzi migliori rispetto a quelli offerti sul mercato nel corso della vendemmia
per cui bisognava vendere a tutti i costi.
Ciò anche perché il ciclo lavorativo della raccolta e della
produzione del mosto aveva dei tempi ben stabiliti per cui bisognava lasciare
subito le attrezzature del palmento che erano state impegnate in quanto era
subito pronto un altro produttore per utilizzarle.
Ecco perché già in fase di inizio lavorazione si vedevano
tanti piccoli produttori fare la spola fra il palmento ed i luoghi di vendita
per cercare di assicurarsi che tutto sarebbe filato liscio.
Il proprietario riempiva una o più bottiglie di mosto
mettendo un tappo di vinaccia (raspi e pasta essiccata) che avrebbe permesso
l’ossigenazione del mosto ed evitato che fuoriuscisse dalla bottiglia durante
il trasporto essendo ancora in fase di ebollizione per lo sprigionarsi
dell’anidride carbonica nel processo di fermentazione alcolica.
La prima cosa che faceva era quella di andare in uno dei
tanti improvvisati laboratori di analisi che sorgevano in paese nel periodo
della vendemmia per conoscere il grado alcolico e presentarsi poi dal
compratore per trattare il prezzo del mosto.
Se la contrattazione andava a buon fine allora il contadino
provvedeva al trasporto del mosto fino al luogo di stoccaggio del
commissionario, che di solito era presso il porto di Marzamemi o in un
magazzino nelle vicinanze, perché il trasporto verso le zone di destinazione
avveniva via mare o con ferrovia.
File interminabili di carri trainati da cavalli o muli con
sopra dei contenitori in legno tipo piccole botti, un po’ affusolate per
permettere una migliore sistemazione sul carro e più maneggevoli nel trasporto,
facevano la spola fra il palmento ed i depositi del mosto.
Piccole botti che
venivano chiamate “carratieddi“.
Ad uno ad uno venivano scaricati direttamene nei vagoni
cisterna della ferrovia o nei contenitori all’interno delle navi da una fila di
uomini che sembrava curvarsi ogni giorno di più sotto il peso e la fatica.
Naturalmente con l’evolversi della tecnica e dei mezzi di
trasporto incominciarono a vedersi i primi camion con grosse botti e con le
pompe a stantuffo trasportare il mosto pompandolo fino alle cisterne senza più
“carratieddi” così come gli autocarri
chiamati Ape o le Lambrette con furgoni di legno e compensato.
Quasi tutto il mosto venduto era destinato all’esportazione
in Francia od a Genova da cui prendeva le varie vie che lo avrebbero portato a
svolgere il ruolo di stallone di altri vini meno dotati dal punto di vista
organolettico.
Ma non sempre nella vendita filava tutto liscio ed allora
erano veramente guai. Anche i concessionari sapevano che i contadini non avevano
dove mettere il loro mosto ed una sosta nel comprare avrebbe indotto tutti gli
sventurati, che avevano finito di vendemmiare, a vendere il mosto a qualsiasi
prezzo.
Queste soste, nel corso della vendemmia, avvenivano con
studiata cadenza ed avevano la scusante dei recipienti pieni, delle navi che
arrivavano in ritardo o di qualsiasi altro motivo che potesse permettere di
abbassare i prezzi e costringere i contadini a vendere ugualmente.
Era sempre un lottare contro un qualcosa che li costringeva
a perdurare nella miseria e l’unica speranza di fuggire era rappresentata
dall’emigrazione perché erano solo poche le annate che permettevano, con la
coltivazione della vite, di vivere un anno dignitoso in attesa di una nuova
vendemmia.
Difatti molti partirono verso terre lontane da cui non
fecero più ritorno, ma molti altri, soprattutto di prima generazione,
ritornarono con nella testa la vita di campagna ed in tasca i soldi del duro
lavoro per ricomprarsi, possibilmente, quel pezzo di terra che avevano lasciato
e che ancora era umido del loro sudore e stanco delle loro speranze.
Fu così anche alla fine degli anni settanta quando la
tendenza solitaria ed egoistica dei contadini di Pachino fu messa a dura prova
da continue annate scarse di produzione e povere di introito che, nemmeno
l’invenzione collettiva di aggiungere zucchero al mosto durante la
fermentazione per aumentare il grado alcolico, era riuscita a salvarli.
Anzi si era solo arricchito il commerciante che importava
vagoni di zucchero mentre i contadini, che non sapevano nemmeno le giuste
percentuali di zuccheraggio e si erano spesso fidati del loro intuito, avevano
anche dovuto buttare spesso il loro prodotto perché rovinato dall’ignoranza di
qualsiasi nozione delle tecniche enologiche.
Fu così che quell’annata di vendemmia non vide scagni aperti per comprare né
commissionari, né recipienti utili per lo stoccaggio.
Sembrava che il mosto si dovesse buttare nelle “canalate” delle strade e fu sciopero in
piazza e casino al Municipio.
Il casino arrivò pure alla Regione con un gruppo esasperato
di agricoltori, con politici di accompagnamento ed assessori pronti ad
ascoltare.
Fu un validissimo assessore siracusano leader politico
nella prima Repubblica che affrontò con convinzione e concretezza il problema.
L’unica soluzione era una cantina sociale che potesse
stoccare il mosto e dare poi un contributo agli agricoltori, da parte della
Regione, in attesa di tempi migliori per la vendita.
Ma la storica solitudine dei cittadini del paese del vento,
attaccati alla roba e gelosi della loro stessa ombra, non aveva prodotto niente
che potesse essere condiviso con gli altri.
Non c’era nemmeno l’ombra di una cantina sociale.
Si tentò di cercarne una nella più organizzata Sicilia
occidentale, ma si dovette rinunciare perché già colme e comunque avrebbero
fatto salire i costi perché lontane.
Qualcuno, quasi sommessamente, si ricordò che nel paese
vicino un gruppo di agricoltori aveva dato vita ad un embrione di cantina
perché aveva solo firmato lo statuto da un notaio per tempi migliori.
Si chiamarono di corsa i dirigenti, si fecero aprire i
termini già scaduti previsti dalla Regione per potere conferire il mosto, si
trovarono sul porto di Marzamemi i locali per la macinazione e lo stoccaggio,
si formò la prima cantina sociale di viticultori.
I soldi, arrivati dalla Regione come contributo in acconto
al conferimento del mosto, furono una vera manna dal cielo per pagare i debiti
dell’intero anno e la novità della cantina sociale entrò prepotentemente nei
discorsi e nella vita dei paesani.
L’anno successivo scattò anche l’orgoglio paesano e si
costituì una nuova cantina tutta autoctona che però durò poco perché, non
appena il mosto ebbe un prezzo accettabile sul mercato, rispuntò il sopito
egoismo e la difesa del particolare rispetto al bene comune.
Negli anni ci si scordò pure che il paese del vento era
conosciuto come la patria del vino e tutti, come tanti soldati in fila indiana,
seguirono i coltivatori di nuovi prodotti che facevano guadagnare di più, ma
che snaturarono vecchie conoscenze agricole e portarono ai vecchi cicli
negativi.
Si ripeterono le soste negative conosciute per il mosto e
tutti i problemi di un’agricoltura che, producendo solo un prodotto, non può
essere competitiva.
Ma il vino si è ripresa la sua degna rivincita e nuovi
investitori, nuovi operatori vinicoli anche locali, hanno ripreso la tradizione
vera e caratterizzante del nostro paese con iniziative serie ed al passo dei
tempi con la riproposizione del prodotto vino in tutti i mercati nazionali ed
internazionali.
Adesso ci sono le iniziative, i produttori, le conoscenze e
le intelligenze capaci di non ripetere gli errori del passato frutto
dell’egoismo, della chiusura e dell’ignoranza che hanno prodotto miseria e
incapacità di sviluppo per il nostro paese e per il nostro territorio.
Lavorate in sinergia e le risposte saranno positive.