La patria intima di Pippo Bufardeci
Corrado Di Pietro
Ho sempre pensato che la patria non sia un concetto astratto, un’idea romantica e nazionalistica ancorata a reminiscenze scolastiche e garibaldine. La patria ha invece qualcosa di concreto, di definito, di vicino a noi e con noi sempre compresente, che in qualche modo ci appartiene e ci identifica. La patria infine è rinchiusa in diversi ambiti, come cerchi concentrici che si allargano sempre di più fino a identificarsi con la nazione, con il continente e con il mondo intero. Ma il centro d’irradiazione di questo universo è il luogo dove siamo nati, anzi la casa e il quartiere stesso che ci ha visto crescere e maturare. La prima patria, quella più intima e duratura ha i connotati delle strade, dei vicoli, dei cortili, delle case, del cinema e dei bar, delle piazze e delle campagne che abbiamo abitato nell’infanzia e questa patria minima rimane sedimentata nel nostro cuore e nella nostra mente per sempre: si fa ricordo e memoria, sentimento e nostalgia, sorriso e affetto. Per questa patria si è sempre combattuto e si è morti, nelle battaglie e nelle guerre della storia italiana, ed è questa la patria che ritorna sempre viva negli occhi dei nostri emigranti.
Di questa patria Pippo Bufardeci ci vuole parlare con i suoi ricordi: scorrono in queste pagine, come in un film neorealista, le tante sequenze della storia pachinese del secondo novecento, anzi di un periodo preciso che si posiziona nei decenni centrali del secolo scorso e che occupa uno spazio preciso, quello di un paese agricolo e marinaro, vociante e confusionario, che si altera facilmente come i venti che lo percuotono da destra e da sinistra e a tutto si appassiona ancora più facilmente, abbandonandosi a ogni impresa con la forza del sole cocente che lo infuoca.
Pachino è tutto questo, anzi fu tutto questo, perché oggi è uno dei tanti confusionari e tristi paesi siciliani, pretenziosi e moderni, multietnici e di debole identità.
E di quella Pachino Bufardeci ci racconta le storie e gli umori. Ci parla della festa della Madonna Assunta e del vestito buono che si ‘ncignava’; di Maruzza Fidilio, la Santa, che passava dalle strade a raccogliere bambini orfani per educarli alla scuola e alla religione; del fidanzamento e delle usanze premaritali; dell’arrivo della televisione e della festa del natale; dell’aria rivoltosa e malandrina che si respirava nel quartiere dei combattenti (la Basalata); dei cortei funebri e delle vendemmie che coinvolgevano intere famiglie. Di questa Pachino, con sapienza memoriale e con garbata ironia, Bufardeci traccia un profilo etno-antropologico di rara freschezza, ancora vivo nei suoi ricordi e palpitante di umanità e di impeto. Scorrono così tantissime immagini legate a persone e luoghi ben precisi, senza mai scendere nel pettegolezzo o nel ridicolo, sempre tenute su un registro narrativo di media discorsività, tra la cronaca e la storia, tra la memoria e l’attualità, col garbo di un figlio devoto che ci vuole parlare dei suoi genitori.
C’è poi l’indagine etnologica vera e propria che ci restituisce gli usi e le atmosfere di Pachino negli anni quaranta-sessanta, indagine che spesso si fa puntuale ricerca e documento come accade quando si interpellano le fonti vive (le persone anziane del paese) e che va ad arricchire i pochi testi che su questo argomento sono stati pubblicati. C’è infatti un gran fiorire di pubblicazioni storiche, archeologiche, letterarie e fotografiche ma ancora poco si è indagato sugli usi e costumi della nostra città. Poco si sa sulle particolarissime tradizioni legate al mondo del lavoro e della pesca a Pachino, sul cambiamento socio-culturale e sulla penetrazione delle altre culture portate da un gran numero di stranieri che vengono dall’Europa e da altri continenti.
In qualche modo questo libro, al di là dell’aneddotica e del riferimento locale e memoriale, aggiunge molte informazioni sicure e spesso inedite sul quel periodo di trasformazione e di transizione fra il vecchio mondo contadino e la nuova epoca industriale che si stava affacciando negli anni sessanta. Sono i cosiddetti snodi della storia che, nell’indagine antropologica, fanno capire la complessa psicologia di un popolo, la sua dinamica organizzazione e le sue umorali aspettative.
Pippo Bufardeci, da fine politico e attento giornalista qual è, tutto questo lo sa e, tra un sorriso e l’altro, entra nelle case dei pachinesi, percorre le strade ventose, gioisce nelle feste di paese, dandoci uno spaccato dinamico e affettuoso della sua e della nostra Pachino. E per questo viaggio parte dalla sua strada, da quella della sua infanzia, in ossequio a quel concetto di patria intima che abbiamo sopra citato. La “Basalata”, quartiere popolarissimo e tipico che prende il nome dal lastricato di basole che copre la strada e che raccoglieva una comunità di contadini e di “jurnatari” dal carattere vivace e colorito, diventa paradigma e prospettiva antropologica di una comunità cittadina che, nei successivi anni settanta e ottanta, si allargherà e si svilupperà in modo vertiginoso, grazie a una florida economia e alle rimesse degli emigranti. La Pachino di oggi è tutta un’altra cosa e di questa nuova città qualcuno, prima o poi, dovrà parlarci.