mercoledì 4 settembre 2019






Pachino: le origini
Corrado Di Pietro

( Relazione svolta da Corrado di Pietro il 5 ottobre 2013 al convegno da me organizzato, per conto del comune di Pachino, presso il palmento Di Rudinì, " PACHINO - MALTA, RITORNO ALLE ORIGINI" )

Lo studio delle origini della propria città ha interessato molti storici locali, i quali hanno cercato di rintracciare in precise situazioni storiche o in determinati personaggi gli artefici di questa nascita. Anche il mito o le narrazioni leggendarie hanno costituito spesso lo scenario immaginario della nascita di una città, proiettando la storia cittadina in un tempo senza tempo, “In illo tempore” come dicevano i latini. Ciò è dovuto al desiderio di coniugare storia e leggenda in un continuum fantastico, eroico, quasi divino, al fine di dare nobiltà di sangue e di patria alla propria comunità. È il caso di Roma, di Firenze, di Napoli, o per restare fra noi, si potrebbe guardare alle nobili origini di Noto, per mano di Ducezio, il grande re dei Siculi, o di Modica, la cui fondazione si perde nella notte dei tempi e si lega leggendariamente alle fatiche di Ercole o della stessa Siracusa in cui mito e storia si intrecciano indissolubilmente.   
Pachino non ha un’antica origine; appartiene all’epoca moderna, al settecento, e non affonda le sue radici nella leggenda o nella grandezza di re e condottieri. Nacque per volontà di un principe, ma per motivi assai banali come il soddisfacimento dei più antichi e umani desideri: la gloria e il potere.
Nell’ultimo mezzo secolo sono stati scritti numerosi saggi di storia locale, riprendendo e rettificando alcune considerazioni apparse nei primi testi, invero approssimativi, comparsi nella prima metà del novecento. [1]
Questa notevole ricerca ha prodotto almeno due significativi risultati:
1.     sono stati portati alla luce molti documenti storici riguardanti l’edificazione del nostro paese;
2.     è stata tracciata e analizzata quella coscienza di popolo che si forma quando si hanno interessi comuni e condivisi.

La ricerca storica
L’accurata ricerca storica che è stata condotta da studiosi come Pasquale Figura, Giuseppe Drago, Rosa Savarino e, per quanto riguarda le dinamiche socio-economiche, da Nello Lupo, ci consentono di tracciare un profilo serio e documentato dei primi flussi migratori che interessarono la nascita della nostra città.
Pachino nasce nella seconda metà del settecento, quando, dopo il terremoto del 1693, che devastò gran parte della Sicilia orientale, si presentò la necessità di riedificare i centri urbani distrutti. Nacquero così i nuovi e moderni centri di Noto, di Spaccaforno (oggi Ispica), di Palazzolo Acreide, di Solarino che furono ripensati e ricostruiti sullo stesso sito o in altro posto. La prima metà del settecento vide questa grande opera di ricostruzione urbana, la quale si sviluppò secondo i criteri urbanistici e stilistici del secolo precedente, appropriandosi di quell’architettura barocca che aveva già ampiamente attraversato il gusto europeo. Da noi il barocco si evolve lungo linee ora più castigate, mitigate dai primi accenni del neoclassico, ora più simboliche, allorché si libera la fantasia all’avvento di immagini fantastiche, oniriche, mostruose (vedi i balconi del Palazzo Nicolaci a Noto o l’inquietante Villa Palagonia a Bagheria).
Ma il settecento è ancora il secolo d’oro di una nobiltà che detiene il potere quasi assoluto sul popolo e sull’economia isolana e questa aristocrazia di antico lignaggio ha necessità di farsi meglio riconoscere, di farsi ammirare e di collocarsi in modo stabile nella scala gerarchica del potere costituito. Il re è lontano, vive a Napoli, e in Sicilia governa un suo sostituto, il viceré, il quale si avvale di una corte di sua esclusiva nomina e di un parlamento costituito da tre bracci: i nobili, ovvero l’aristocrazia terriera siciliana di più alto grado come principi, marchesi, conti; il clero, ovvero cardinali, vescovi e abati, con esclusione del clero minuto, parrocchiale e campagnolo; i rappresentanti dei comuni, ovvero sindaci e giurati provenienti dalle città demaniali, come Noto. Questi ultimi non riusciranno mai a esprimere e imporre le loro ragioni perché la comunanza di interessi fra nobili e alto clero non permetterà quasi mai di riconoscere i diritti dei cosiddetti “cittadini”.
I contadini, i pastori, i piccoli artigiani accolti nei centri feudali appartenevano ai loro padroni, nell’anima e nel corpo, anche se questi legami si allenteranno sempre di più verso la fine del secolo.
L’appartenenza quindi a una classe parlamentare, vicina agli interessi del re e in grado di imporre una forte visibilità della propria immagine, indusse alcuni nobili a edificare nuovi centri: possibilità, questa, di consentire al nobile fondatore di entrare a pieno titolo nel parlamento siciliano. Nacquero così, nella seconda metà del settecento, le Terre di San Paolo Solarino (1760), ad opera del principe di Pantelleria Giuseppe Antonio Requisenz, e di Pachino, come ora meglio vedremo.
Quindi in questo quadro storico e sociale si inserisce la vicenda della nascita della nostra città.

La nascita di Pachino
Ripetutamente, in diversi anni, don Gaetano Starrabba Calafato, principe di Giardinelli e originario di Piazza Armerina, aveva fatto istanza a re Carlo di Borbone prima e a Ferdinando suo figlio poi, tramite l’onorevole ufficio del viceré Fogliani, per chiedere di edificare, nel suo feudo di Scibini, una Terra che possa riunire in un’organica università tutte le persone già presenti nel feudo e quelle che qui avrebbero voluto trasferirsi, sia dai paesi vicini, sia dall’estero.
La prima richiesta risale al 1755 e la risposta non si era fatta attendere. Infatti il 26 maggio del 1756 giunse la prima licenza che conteneva tre prescrizioni: la prima riguardava la popolazione che doveva esser reclutata, cioè gente di fede cattolica proveniente dalla Grecia, dall’Albania e dall’Illiria; la seconda riguardava il sito dove doveva sorgere la nuova Terra, cioè ad almeno due miglia dal mare; la terza riguardava i quaranta fuochi, cioè il numero minimo dei nuclei familiari necessari alla fondazione della Terra.  
Non fu possibile dare attuazione a questa prima richiesta e, scaduta la licenza, il principe inviò una seconda petizione tendente anche ad alleggerire alcune clausole, in particolare quella riguardante la provenienza della popolazione. La seconda licenza di edificazione arrivò con dispaccio d’Azienda della Real Segreteria di Stato del 1758, ricalcante sostanzialmente i contenuti della prima. Don Gaetano cercò, con bandi e con messaggeri, di attrarre con larghe condizioni di enfiteusi e di una sicura sistemazione la cosiddetta gente cattolica della Grecia, dell’Albania e dell’Illiria, ma solo pochi risposero alla chiamata. Scaduti i termini di questa seconda licenza il principe reiterò ancora una volta la richiesta pregando il generosissimo sovrano di consentirgli di rivolgersi ai maltesi che, certamente, data anche la vicinanza del luogo e dei costumi con la nostra gente di Sicilia, avrebbero meglio potuto valutare l’opportunità di un loro trasferimento.
Il Re risponde ancora una volta positivamente e, con Dispaccio d’Azienda del 21 luglio 1760, consente a Don Gaetano di chiamare ad abitare la nuova Terra i greci cattolici; non più dunque gente d’Albania e dell’Illiria ma solo greci cattolici. Non si parla ancora di maltesi.
Restano ancora ferme le altre due condizioni: quelle del sito che dovrà essere distante due miglia dal mare e quella dei necessari 40 fuochi. Per quanto riguarda il sito, il Principe di Giardinelli ritenne che la parte più elevata del suo feudo Scibini potesse adattarsi bene all’edificazione della nuova città distando quasi due miglia dal mare mentre pensava di risolvere il problema dei 40 fuochi riunendo i vecchi residenti nelle contrade vicine e invitando i maltesi a venire a popolare la nuova Terra.
Più volte Don Gaetano Starrabba inviò a Malta delle speronare per imbarcare coloro che avessero voluto avere un pezzo di terra a Pachino e l’esenzione dei dazi e delle gabelle per 25 anni.
Quindi, in quel momento, nel feudo Scibini si formò una piccola comunità: pastori e contadini provenienti dalle città vicine di Spaccaforno e Noto, da altri centri siciliani e da altri regni, qualche famiglia venne da Malta, ma di greci cattolici neanche l’ombra. Noto e Spaccaforno cominciarono a lamentarsi perché Don Gaetano sottraeva ricchezza di braccia e di denaro alle loro università e mal tolleravano la nascita di un’altra città che potesse ridurre la loro giurisdizione territoriale ed economica.
Intanto gli anni passavano e quel piccolo nucleo di pastori, contadini, piccoli artigiani, marinai, cominciava ad ingrossarsi. Erano passati otto anni da quando Don Gaetano Starrabba aveva avuto il beneplacito del viceré a fondare una Terra nel suo feudo di Scibini. Pachino era sorta con molti stenti e non tutte le condizioni esposte nel decreto regio erano state rispettate. Come si è già detto i paesi vicini si lamentavano di vedersi sottrarre, con la promessa di donativi di case e terre, parecchi dei loro abitanti, venendo quindi ad intaccare le prerogative fiscali e giuridiche di quelle università, che su questi loro abitanti esercitavano lo stesso potere che i nobili facevano gravare sui popolani dei loro feudi. Solo i maltesi avevano risposto ai ripetuti bandi d’invito a popolare la nuova città e non si riusciva a far aumentare in modo significativo la popolazione inurbata, mentre molti tra bovari, mandriani, pastori e contadini preferivano stare sempre fuori dal paese, nei campi e nelle masserie, a guardare i loro armenti o a sorvegliare le colture. Forse i continui furti di bestiame o i saccheggi dei frutti degli alberi, del grano maturo e del cotone inducevano i contadini e i pastori a una continua sorveglianza, tuttavia la gente sparsa per le campagne era di più di quella che abitava in paese.
Lo stesso marchese di Spaccaforno aveva inoltrato al viceré Fogliani diverse lettere di lamentele per questo arrogante arbitrio del principe di Giardinelli e aveva preteso la restituzione di quelle famiglie che si erano rifugiate a Pachino.
Ma ciò che successe a Noto fu ancora più grave e delinea fortemente il carattere del principe di Giardinelli, deciso e spregiudicato, che, pur di raggiungere il suo scopo, tradisce l’onore che l’esercizio del suo potere di giudice gli imponeva.
Don Gaetano apparteneva a quella genìa di individui che, avendo ricevuto per grazia di Dio i larghi benefici della nobiltà, pensavano di poter esercitare impunemente e al di sopra d’ogni altra legge i poteri che gli erano stati conferiti; e brigava e intrigava per riuscire in questo suo scopo e allorché qualche ostacolo gli si parava davanti lui cercava i modi e la maniera di poterlo aggirare, con le buone o con le cattive.
Nessuno pensi, però, che il vanitoso principe di Giardinelli fosse un uomo cattivo e senza cuore. Non procurava del male a nessuno e amministrava la giustizia del mero e misto imperio con discernimento e tolleranza e aveva cominciato veramente a dare le terre del suo feudo ai contadini e i pascoli ai pastori e, tramite il fratello Vincenzo, la comunità pachinese cominciava ad avere una propria identità, almeno urbanistica ed edilizia. Era stato battuto e lastricato con piccole pietre il pianoro grande del centro del paese e attorno ad esso erano state tracciate le strade e su di esse cominciavano ad affacciarsi le prime abitazioni terranee.
Per venire a capo di questa faccenda, spinto dalle pressanti denunce dei comuni di Spaccaforno e Noto, il viceré Fogliani dispose un’indagine accurata sulla popolazione di Pachino e sul rispetto delle clausole imposte dal Re, nei ripetuti decreti.
Verso la fine di maggio giunse a Pachino il delegato del Real Patrimonio don Giuseppe Ruffino, il quale provvide a redigere un “Piano delle Famiglie”; furono registrate le famiglie e le persone singole, le loro provenienze, l’anno in cui erano arrivate nella nuova Terra, il lavoro che svolgevano, i dati anagrafici di ognuno. Fu il primo vero censimento della nuova città e, non potendo fare alcun riscontro effettivo con i registri parrocchiali dell’anno 1763, anno di riferimento di tutta quell’indagine, che illecitamente erano stati sottratti nottetempo dallo stesso principe dalla biblioteca ecclesiastica di Noto, il responso fu favorevole al principe. Quasi tutti gli abitanti dichiararono infatti di trovarsi a Pachino già prima del ’63 e la maggior parte dichiarò di venire da Malta o da altre città fuori regno.
Così il 2 giugno 1768 il delegato don Giuseppe Ruffino inviò al Tribunale del Real Patrimonio il risultato della sua inchiesta: erano stati registrati 47 fuochi esteri ed erano state rispettate anche le altre clausole previste nei vari Regi Decreti sul diritto di popolare una Terra nel feudo Scibini.
Pachino nacque giuridicamente in quei giorni e l’università di Noto dovette inghiottire il rospo e accettare il responso. L’egemonia che Noto aveva esercitato per lunghi secoli su tutto il territorio della Sicilia sud-orientale, sui feudi di tanti nobili e sui coloni che li abitavano, fu limitata e ridotta da quel riconoscimento che tagliava l’intera punta meridionale del suo immenso territorio per far nascere un’autonoma università.
Restava tuttavia un legame fiscale con Noto. Infatti lo jus populandi del 1756 e quello dei successivi decreti era chiaro: Noto doveva continuare a percepire tutte le gabelle dei “regnicoli”, cioè di coloro che appartenevano al Regno di Sicilia, mentre i forestieri potevano assolvere ai loro gravami fiscali direttamente con la nuova università.
Ma ormai Pachino era sorta e la sua storia poteva essere scritta direttamente dai suoi abitanti. Il principe aveva vinto la sua battaglia.

Ma sarebbe miope non considerare alcuni altri aspetti importanti che si legarono alla nascita di Pachino. Una nuova città porta gente e braccia da lavoro. Aumentano le terre messe a coltura, si procede a una bonifica dei luoghi paludosi e malsani, si costruiscono case e palazzi, si dà lavoro a tutti e l’economia del territorio cresce. E con essa crescono le imposte reali e feudali e il regno tutto se ne avvantaggia. Infine la nuova Terra di Pachino sarebbe stata come una ulteriore sentinella in quella zona vasta e dimenticata, spesso preda di scorrerie e di azioni piratesche.
Insomma, se si vuole giudicare la cosa senza pregiudizi, la nascita di Pachino aggiungeva meriti al regno e non sottraeva niente agli altri comuni.
La lingua
Se il nucleo maggiore della gente che popolò la nostra città proveniva da Malta allora bisogna porsi alcune domande: quale lingua parlavano, quali cognomi avevano e questi sono ancora oggi riscontrabili nel nostro territorio, che esperienze portarono in campo agricolo o altro?
Per quanto riguarda la lingua, non avendo trovato nei nostri archivi documenti in quella lingua risalenti alla seconda metà del settecento, scritti da questa gente, possiamo fare solo delle congetture. Per esempio: sappiamo che la lingua maltese nasce dal dialetto arabo di Sicilia; questo dialetto, chiamato mozarabico, si parlò correntemente in Sicilia nei secoli XI e XII, durante la dominazione araba la cui egemonia si estese anche sull’isola maltese. È quindi essenzialmente una lingua semitica, appartenente al ceppo nord africano, molto diverso dal ceppo indoeuropeo al quale appartengono le nostre lingue romanze. “Successivamente, con la conquista normanna, questo dialetto arabo cominciò ad incorporare elementi lessicali e morfologici delle lingue romanze, in particolare dal siciliano e dal latino medievale. Oggi la lingua maltese risulta avere circa il 60% di vocaboli provenienti dall'italiano e soprattutto dal siciliano”.
In linea di massima, le parole di uso corrente, legate alla quotidianità, derivano dall'arabo, termini legati all'amministrazione, all'istruzione, all'arte, alla cultura derivano dal siciliano.
Esempio: dall’arabo derivano termini come dar ("casa"), xemx ("sole"), sajf ("estate"), jum ("giorno"), raġel ("uomo"), mara ("donna"),mentre i invece termini come skolagvernrepubblikanaturapulizija ("polizia"), xjenza ("scienza"), teatru
edukazzjoni e differenza sono chiaramente di derivazione siciliana.
Quindi se la gran parte di vocaboli correnti nella lingua maltese apparteneva al siciliano allora i maltesi che arrivarono a Pachino non fecero molta fatica ad apprendere il nostro dialetto. Il quale aveva già forti caratterizzazioni fonetiche e grammaticali provenienti dalle parlate modicana e notinese, differenti dal resto dei territori delle due attuali province di Ragusa e Siracusa.

I Cognomi
Molti cognomi maltesi ancora resistono nella nostra città, come Lucchese, Meilach, Micalef, Borgh, Azzoppard (che diventa Zuppardi), Cammisuli, Zamit (che diventa Zammitti), Scirè, Mizzi, Attardi, Mallia, Magro, Zara, Sobrera; molti di questi cognomi li troviamo nella lista militare del 1818 del comune di Pachino, la quale riporta, fra gli altri, i nati a Malta nel 1769 ed anni successivi. E sono cognomi in massima parte di lingua italiana o italianizzati. Ma altri cognomi come Brancati, Cassar Scalia, Giardina, Costa, Callari, Cultrera, Di Pietro ricorrono frequentemente già negli anni ottanta e novanta del settecento e li troviamo registrati negli atti parrocchiali dei battesimi.
L’agricoltura
Dal punto di vista agricolo i maltesi affinarono le pratiche di coltivazione e di sfruttamento del cotone, già presentii nel nostro territorio in modo molto rudimentale.
La loro stessa cultura, in parte araba e in parte siciliana, si assimilò velocemente con le nostre tradizioni e il nostro modo di pensare e ben presto, dopo solo pochi decenni dal loro arrivo, i maltesi si integrarono perfettamente nella cultura siciliana.

Conclusioni
Verso la fine del settecento Pachino era già un paese organicamente costruito, con una pianta a scacchiera, secondo i più moderni sistemi urbani del tempo; aveva oltre duemila abitanti, una economia fiorente basata sulla coltivazione e lavorazione del cotone e sulla diffusa pastorizia; la coltivazione della vite faceva il suo timido ingresso, la tonnara di Marzamemi lavorava a pieno regime. Il complesso crogiolo di persone di diversa provenienza si era stemperato in una popolazione coesa dal punto di vista amministrativo ed economico, culturale e sociale. Era sorta davvero una comunità nuova capace di scrivere la propria storia.



[1] Per lungo tempo la bibliografia su Pachino è stata poverissima. Il primo libro organico sulla storia e la cultura del nostro paese fu quello di mons. Simone Sultano, Pachino e i suoi dintorni - Premiata Tipografia Zammit - Noto 1940, riedito a Pachino nel 1968; a questo volume, ricco di notizie e di spunti di vario genere, hanno attinto numerosi altri storici e raccoglitori di usi e tradizioni del nostro paese. Il libro, seppure condizionato dalla retorica del tempo, si fa apprezzare per la buona ricerca documentaria. Dopo un lunghissimo silenzio e dopo innumerevoli fatiche da parte dell’autore spuntano, negli anni settanta, i due libretti ciclostilati in proprio di Pasquale Figura: Pachino: La Vendemmia e Veduta da Poggio San Gaetano, edito nel 1977;  Pachino su Poggio Scibini del 1979. Soprattutto nel secondo si tenta una ricostruzione storica della nascita del nostro paese, corredata di note storiche interessanti a cui attingeranno gli studiosi successivi. Ci sono poi i pregevoli lavori, di stampo archeologico, di Salvatore Ciancio - Gli abitanti del Promontorio di Pachino - Noto 1972, e di Emanuele Umberto Muscova che ha destinato al nostro paese quattro pregevoli opere:  Promontorio di Pachino - dalla cultura paleolitica superiore ai nostri giorni - edito dal Comune di Pachino nel 1987; Promontorium Pachyni - preistoria e storia - edito dalla Cassa Rurale ed Artigiana di Pachino nel 1988;  Pachino sul colle Scibini, approfondita ricerca storica sull’ambiente pachinese, dalla fondazione della città ad oggi, edito dal Comune di Pachino nel 1990; Pachum Phoenicium - Gli insediamenti umani nel territorio pachinese dalla preistoria al paleocristianesimo - pubblicato nel 1994 per conto del Comune di Pachino - Assessorato ai Beni Culturali. Nel 1993 viene pubblicato, a cura di Maria Bugliarisi Di Maio, un famoso manoscritto di Vincenzo Curcio, Storia di Pachino, a oltre sessant’anni dalla sua originaria stesura. A questo manoscritto, che indubbiamente rappresenta la prima ricerca storica su Pachino, hanno attinto un po’ tutti, dal Sultano in poi. Curcio fu un bravo maestro di scuola e proprio in questo suo lavoro ci lascia stupefacenti testimonianze del suo metodo didattico. Inoltre, attraverso i compiti degli alunni e le sue giornaliere notazioni in classe ricostruisce uno spaccato vivo e palpitante della Pachino degli anni ‘20. Un discorso a parte meriterebbe il bel libro di Giuseppe Drago su Gli Starrabba Di Rudinì - fondatori e signori di Pachino - Flaccavento editore Siracusa 1996, pubblicato con il sostegno della Banca di Credito Cooperativo di Pachino. E’ questa la più completa, analitica e puntigliosa ricerca non solo sulla nobile famiglia degli Starrabba ma sulle origini e i primi insediamenti urbani pachinesi. Particolare riferimento viene fatto alla situazione agricola. L’accurata e ricchissima documentazione su cui poggia tutta l’impalcatura del libro lo rende fonte di ricerca e di studio per future opere e certamente quanto di più esaustivo sia stato scritto sul nostro paese.