Pachino: le
origini
Corrado Di Pietro
( Relazione svolta da Corrado di Pietro il 5 ottobre 2013 al convegno da me organizzato, per conto del comune di Pachino, presso il palmento Di Rudinì, " PACHINO - MALTA, RITORNO ALLE ORIGINI" )
Lo studio delle origini della propria
città ha interessato molti storici locali, i quali hanno cercato di
rintracciare in precise situazioni storiche o in determinati personaggi gli
artefici di questa nascita. Anche il mito o le narrazioni leggendarie hanno
costituito spesso lo scenario immaginario della nascita di una città,
proiettando la storia cittadina in un tempo senza tempo, “In illo tempore” come
dicevano i latini. Ciò è dovuto al desiderio di coniugare storia e leggenda in
un continuum fantastico, eroico, quasi divino, al fine di dare nobiltà di
sangue e di patria alla propria comunità. È il caso di Roma, di Firenze, di
Napoli, o per restare fra noi, si potrebbe guardare alle nobili origini di
Noto, per mano di Ducezio, il grande re dei Siculi, o di Modica, la cui
fondazione si perde nella notte dei tempi e si lega leggendariamente alle
fatiche di Ercole o della stessa Siracusa in cui mito e storia si intrecciano
indissolubilmente.
Pachino non ha un’antica origine;
appartiene all’epoca moderna, al settecento, e non affonda le sue radici nella
leggenda o nella grandezza di re e condottieri. Nacque per volontà di un
principe, ma per motivi assai banali come il soddisfacimento dei più antichi e
umani desideri: la gloria e il potere.
Nell’ultimo mezzo secolo sono stati
scritti numerosi saggi di storia locale, riprendendo e rettificando alcune
considerazioni apparse nei primi testi, invero approssimativi, comparsi nella
prima metà del novecento. [1]
Questa notevole ricerca ha prodotto
almeno due significativi risultati:
1.
sono
stati portati alla luce molti documenti storici riguardanti l’edificazione del
nostro paese;
2.
è
stata tracciata e analizzata quella coscienza di popolo che si forma quando si
hanno interessi comuni e condivisi.
La ricerca
storica
L’accurata ricerca storica che è
stata condotta da studiosi come Pasquale Figura, Giuseppe Drago, Rosa Savarino
e, per quanto riguarda le dinamiche socio-economiche, da Nello Lupo, ci
consentono di tracciare un profilo serio e documentato dei primi flussi
migratori che interessarono la nascita della nostra città.
Pachino nasce nella seconda metà del
settecento, quando, dopo il terremoto del 1693, che devastò gran parte della
Sicilia orientale, si presentò la necessità di riedificare i centri urbani
distrutti. Nacquero così i nuovi e moderni centri di Noto, di Spaccaforno (oggi
Ispica), di Palazzolo Acreide, di Solarino che furono ripensati e ricostruiti sullo
stesso sito o in altro posto. La prima metà del settecento vide questa grande
opera di ricostruzione urbana, la quale si sviluppò secondo i criteri
urbanistici e stilistici del secolo precedente, appropriandosi di quell’architettura
barocca che aveva già ampiamente attraversato il gusto europeo. Da noi il
barocco si evolve lungo linee ora più castigate, mitigate dai primi accenni del
neoclassico, ora più simboliche, allorché si libera la fantasia all’avvento di
immagini fantastiche, oniriche, mostruose (vedi i balconi del Palazzo Nicolaci
a Noto o l’inquietante Villa Palagonia a Bagheria).
Ma il settecento è ancora il secolo
d’oro di una nobiltà che detiene il potere quasi assoluto sul popolo e
sull’economia isolana e questa aristocrazia di antico lignaggio ha necessità di
farsi meglio riconoscere, di farsi ammirare e di collocarsi in modo stabile
nella scala gerarchica del potere costituito. Il re è lontano, vive a Napoli, e
in Sicilia governa un suo sostituto, il viceré, il quale si avvale di una corte
di sua esclusiva nomina e di un parlamento costituito da tre bracci: i nobili, ovvero l’aristocrazia
terriera siciliana di più alto grado come principi, marchesi, conti; il clero, ovvero cardinali, vescovi e
abati, con esclusione del clero minuto, parrocchiale e campagnolo; i rappresentanti dei comuni, ovvero
sindaci e giurati provenienti dalle città demaniali, come Noto. Questi ultimi
non riusciranno mai a esprimere e imporre le loro ragioni perché la comunanza
di interessi fra nobili e alto clero non permetterà quasi mai di riconoscere i
diritti dei cosiddetti “cittadini”.
I contadini, i pastori, i piccoli
artigiani accolti nei centri feudali appartenevano ai loro padroni, nell’anima
e nel corpo, anche se questi legami si allenteranno sempre di più verso la fine
del secolo.
L’appartenenza quindi a una classe
parlamentare, vicina agli interessi del re e in grado di imporre una forte
visibilità della propria immagine, indusse alcuni nobili a edificare nuovi
centri: possibilità, questa, di consentire al nobile fondatore di entrare a pieno
titolo nel parlamento siciliano. Nacquero così, nella seconda metà del
settecento, le Terre di San Paolo Solarino (1760), ad opera del principe di Pantelleria Giuseppe Antonio Requisenz, e di Pachino, come
ora meglio vedremo.
Quindi in questo quadro storico e sociale
si inserisce la vicenda della nascita della nostra città.
La nascita di Pachino
Ripetutamente,
in diversi anni, don Gaetano Starrabba Calafato, principe di Giardinelli e
originario di Piazza Armerina, aveva fatto istanza a re Carlo di Borbone prima
e a Ferdinando suo figlio poi, tramite l’onorevole ufficio del viceré Fogliani,
per chiedere di edificare, nel suo feudo di Scibini, una Terra che possa
riunire in un’organica università tutte le persone già presenti nel feudo e
quelle che qui avrebbero voluto trasferirsi, sia dai paesi vicini, sia
dall’estero.
La
prima richiesta risale al 1755 e la risposta non si era fatta attendere.
Infatti il 26 maggio del 1756 giunse la prima licenza che conteneva tre
prescrizioni: la prima riguardava la popolazione che doveva esser reclutata,
cioè gente di fede cattolica proveniente dalla Grecia, dall’Albania e
dall’Illiria; la seconda riguardava il sito dove doveva sorgere la nuova Terra,
cioè ad almeno due miglia dal mare; la terza riguardava i quaranta fuochi, cioè
il numero minimo dei nuclei familiari necessari alla fondazione della Terra.
Non
fu possibile dare attuazione a questa prima richiesta e, scaduta la licenza, il
principe inviò una seconda petizione tendente anche ad alleggerire alcune
clausole, in particolare quella riguardante la provenienza della popolazione. La
seconda licenza di edificazione arrivò con dispaccio d’Azienda della Real
Segreteria di Stato del 1758, ricalcante sostanzialmente i contenuti della
prima. Don Gaetano cercò, con bandi e con messaggeri, di attrarre con larghe
condizioni di enfiteusi e di una sicura sistemazione la cosiddetta gente
cattolica della Grecia, dell’Albania e dell’Illiria, ma solo pochi risposero
alla chiamata. Scaduti i termini di questa seconda licenza il principe reiterò
ancora una volta la richiesta pregando il generosissimo sovrano di consentirgli
di rivolgersi ai maltesi che, certamente, data anche la vicinanza del luogo e
dei costumi con la nostra gente di Sicilia, avrebbero meglio potuto valutare
l’opportunità di un loro trasferimento.
Il
Re risponde ancora una volta positivamente e, con Dispaccio d’Azienda del 21
luglio 1760, consente a Don Gaetano di chiamare ad abitare la nuova Terra i
greci cattolici; non più dunque gente d’Albania e dell’Illiria ma solo greci
cattolici. Non si parla ancora di maltesi.
Restano
ancora ferme le altre due condizioni: quelle del sito che dovrà essere distante
due miglia dal mare e quella dei necessari 40 fuochi. Per quanto riguarda il
sito, il Principe di Giardinelli ritenne che la parte più elevata del suo feudo
Scibini potesse adattarsi bene all’edificazione della nuova città distando
quasi due miglia dal mare mentre pensava di risolvere il problema dei 40 fuochi
riunendo i vecchi residenti nelle contrade vicine e invitando i maltesi a
venire a popolare la nuova Terra.
Più
volte Don Gaetano Starrabba inviò a Malta delle speronare per imbarcare coloro
che avessero voluto avere un pezzo di terra a Pachino e l’esenzione dei dazi e
delle gabelle per 25 anni.
Quindi, in quel
momento, nel feudo Scibini si formò una piccola comunità: pastori e contadini
provenienti dalle città vicine di Spaccaforno e Noto, da altri centri siciliani
e da altri regni, qualche famiglia venne da Malta, ma di greci cattolici
neanche l’ombra. Noto e Spaccaforno cominciarono a lamentarsi perché Don Gaetano
sottraeva ricchezza di braccia e di denaro alle loro università e mal
tolleravano la nascita di un’altra città che potesse ridurre la loro
giurisdizione territoriale ed economica.
Intanto gli anni
passavano e quel piccolo nucleo di pastori, contadini, piccoli artigiani,
marinai, cominciava ad ingrossarsi. Erano passati otto anni da quando Don
Gaetano Starrabba aveva avuto il beneplacito del viceré a fondare una Terra nel
suo feudo di Scibini. Pachino era sorta con molti stenti e non tutte le
condizioni esposte nel decreto regio erano state rispettate. Come si è già
detto i paesi vicini si lamentavano di vedersi sottrarre, con la promessa di
donativi di case e terre, parecchi dei loro abitanti, venendo quindi ad
intaccare le prerogative fiscali e giuridiche di quelle università, che su
questi loro abitanti esercitavano lo stesso potere che i nobili facevano
gravare sui popolani dei loro feudi. Solo i maltesi avevano risposto ai
ripetuti bandi d’invito a popolare la nuova città e non si riusciva a far aumentare
in modo significativo la popolazione inurbata, mentre molti tra bovari,
mandriani, pastori e contadini preferivano stare sempre fuori dal paese, nei
campi e nelle masserie, a guardare i loro armenti o a sorvegliare le colture.
Forse i continui furti di bestiame o i saccheggi dei frutti degli alberi, del
grano maturo e del cotone inducevano i contadini e i pastori a una continua
sorveglianza, tuttavia la gente sparsa per le campagne era di più di quella che
abitava in paese.
Lo stesso marchese di
Spaccaforno aveva inoltrato al viceré Fogliani diverse lettere di lamentele per
questo arrogante arbitrio del principe di Giardinelli e aveva preteso la
restituzione di quelle famiglie che si erano rifugiate a Pachino.
Ma ciò che successe a
Noto fu ancora più grave e delinea fortemente il carattere del principe di
Giardinelli, deciso e spregiudicato, che, pur di raggiungere il suo scopo,
tradisce l’onore che l’esercizio del suo potere di giudice gli imponeva.
Don Gaetano
apparteneva a quella genìa di individui che, avendo ricevuto per grazia di Dio
i larghi benefici della nobiltà, pensavano di poter esercitare impunemente e al
di sopra d’ogni altra legge i poteri che gli erano stati conferiti; e brigava e
intrigava per riuscire in questo suo scopo e allorché qualche ostacolo gli si
parava davanti lui cercava i modi e la maniera di poterlo aggirare, con le
buone o con le cattive.
Nessuno
pensi, però, che il vanitoso principe di Giardinelli fosse un uomo cattivo e
senza cuore. Non procurava del male a nessuno e amministrava la giustizia del
mero e misto imperio con discernimento e tolleranza e aveva cominciato
veramente a dare le terre del suo feudo ai contadini e i pascoli ai pastori e,
tramite il fratello Vincenzo, la comunità pachinese cominciava ad avere una
propria identità, almeno urbanistica ed edilizia. Era stato battuto e
lastricato con piccole pietre il pianoro grande del centro del paese e attorno
ad esso erano state tracciate le strade e su di esse cominciavano ad
affacciarsi le prime abitazioni terranee.
Per venire a
capo di questa faccenda, spinto dalle pressanti denunce dei comuni di
Spaccaforno e Noto, il viceré Fogliani dispose un’indagine accurata sulla
popolazione di Pachino e sul rispetto delle clausole imposte dal Re, nei
ripetuti decreti.
Verso la
fine di maggio giunse a Pachino il delegato del Real Patrimonio don Giuseppe Ruffino, il quale provvide a redigere un
“Piano delle Famiglie”; furono registrate le famiglie e le persone singole, le
loro provenienze, l’anno in cui erano arrivate nella nuova Terra, il lavoro che
svolgevano, i dati anagrafici di ognuno. Fu il primo vero censimento della
nuova città e, non potendo fare alcun riscontro effettivo con i registri
parrocchiali dell’anno 1763, anno di riferimento di tutta quell’indagine, che
illecitamente erano stati sottratti nottetempo dallo stesso principe dalla
biblioteca ecclesiastica di Noto, il responso fu favorevole al principe. Quasi
tutti gli abitanti dichiararono infatti di trovarsi a Pachino già prima del ’63
e la maggior parte dichiarò di venire da Malta o da altre città fuori regno.
Così il 2 giugno 1768 il delegato don Giuseppe Ruffino inviò al Tribunale
del Real Patrimonio il risultato della sua inchiesta: erano stati registrati 47
fuochi esteri ed erano state rispettate anche le altre clausole previste nei
vari Regi Decreti sul diritto di popolare una Terra nel feudo Scibini.
Pachino nacque giuridicamente in quei giorni e l’università di Noto
dovette inghiottire il rospo e accettare il responso. L’egemonia che Noto aveva
esercitato per lunghi secoli su tutto il territorio della Sicilia
sud-orientale, sui feudi di tanti nobili e sui coloni che li abitavano, fu
limitata e ridotta da quel riconoscimento che tagliava l’intera punta
meridionale del suo immenso territorio per far nascere un’autonoma università.
Restava tuttavia un legame fiscale con Noto. Infatti lo jus populandi del 1756 e quello dei successivi
decreti era chiaro: Noto doveva continuare a percepire tutte le gabelle dei
“regnicoli”, cioè di coloro che appartenevano al Regno di Sicilia, mentre i
forestieri potevano assolvere ai loro gravami fiscali direttamente con la nuova
università.
Ma ormai Pachino era sorta e la sua storia poteva essere scritta
direttamente dai suoi abitanti. Il principe aveva vinto la sua battaglia.
Ma sarebbe miope non considerare
alcuni altri aspetti importanti che si legarono alla nascita di Pachino. Una
nuova città porta gente e braccia da lavoro. Aumentano le terre messe a
coltura, si procede a una bonifica dei luoghi paludosi e malsani, si
costruiscono case e palazzi, si dà lavoro a tutti e l’economia del territorio
cresce. E con essa crescono le imposte reali e feudali e il regno tutto se ne
avvantaggia. Infine la nuova Terra di Pachino sarebbe stata come una ulteriore
sentinella in quella zona vasta e dimenticata, spesso preda di scorrerie e di
azioni piratesche.
Insomma, se si vuole giudicare la
cosa senza pregiudizi, la nascita di Pachino aggiungeva meriti al regno e non
sottraeva niente agli altri comuni.
La lingua
Se il nucleo maggiore della gente che popolò la
nostra città proveniva da Malta allora bisogna porsi alcune domande: quale
lingua parlavano, quali cognomi avevano e questi sono ancora oggi riscontrabili
nel nostro territorio, che esperienze portarono in campo agricolo o altro?
Per quanto riguarda la lingua, non avendo trovato
nei nostri archivi documenti in quella lingua risalenti alla seconda metà del
settecento, scritti da questa gente, possiamo fare solo delle congetture. Per
esempio: sappiamo che la lingua maltese nasce dal dialetto arabo di Sicilia;
questo dialetto, chiamato mozarabico, si parlò correntemente in Sicilia nei
secoli XI e XII, durante la dominazione araba la cui egemonia si estese anche
sull’isola maltese. È quindi essenzialmente una lingua semitica, appartenente
al ceppo nord africano, molto diverso dal ceppo indoeuropeo al quale
appartengono le nostre lingue romanze. “Successivamente,
con la conquista normanna, questo dialetto arabo
cominciò ad incorporare elementi lessicali e morfologici delle lingue romanze,
in particolare dal siciliano e dal latino
medievale.
Oggi la lingua maltese risulta avere circa il 60% di vocaboli provenienti dall'italiano e soprattutto dal siciliano”.
In linea di massima, le parole di
uso corrente, legate alla quotidianità, derivano dall'arabo, termini legati
all'amministrazione, all'istruzione, all'arte, alla cultura derivano dal siciliano.
Esempio: dall’arabo derivano termini
come dar ("casa"), xemx ("sole"), sajf ("estate"), jum ("giorno"), raġel ("uomo"), mara ("donna"),mentre
i invece termini come skola, gvern, repubblika, natura, pulizija ("polizia"), xjenza ("scienza"), teatru,
edukazzjoni e differenza sono
chiaramente di derivazione siciliana.
Quindi se la
gran parte di vocaboli correnti nella lingua maltese apparteneva al siciliano
allora i maltesi che arrivarono a Pachino non fecero molta fatica ad apprendere
il nostro dialetto. Il quale aveva già forti caratterizzazioni fonetiche e
grammaticali provenienti dalle parlate modicana e notinese, differenti dal
resto dei territori delle due attuali province di Ragusa e Siracusa.
I Cognomi
Molti
cognomi maltesi ancora resistono nella nostra città, come Lucchese, Meilach, Micalef,
Borgh, Azzoppard (che diventa Zuppardi), Cammisuli, Zamit (che diventa
Zammitti), Scirè, Mizzi, Attardi, Mallia, Magro, Zara, Sobrera; molti di questi
cognomi li troviamo nella lista militare del 1818 del comune di Pachino, la
quale riporta, fra gli altri, i nati a Malta nel 1769 ed anni successivi. E
sono cognomi in massima parte di lingua italiana o italianizzati. Ma altri
cognomi come Brancati, Cassar Scalia, Giardina, Costa, Callari, Cultrera, Di
Pietro ricorrono frequentemente già negli anni ottanta e novanta del settecento
e li troviamo registrati negli atti parrocchiali dei battesimi.
L’agricoltura
Dal
punto di vista agricolo i maltesi affinarono le pratiche di coltivazione e di
sfruttamento del cotone, già presentii nel nostro territorio in modo molto
rudimentale.
La
loro stessa cultura, in parte araba e in parte siciliana, si assimilò
velocemente con le nostre tradizioni e il nostro modo di pensare e ben presto,
dopo solo pochi decenni dal loro arrivo, i maltesi si integrarono perfettamente
nella cultura siciliana.
Conclusioni
Verso
la fine del settecento Pachino era già un paese organicamente costruito, con
una pianta a scacchiera, secondo i più moderni sistemi urbani del tempo; aveva
oltre duemila abitanti, una economia fiorente basata sulla coltivazione e
lavorazione del cotone e sulla diffusa pastorizia; la coltivazione della vite
faceva il suo timido ingresso, la tonnara di Marzamemi lavorava a pieno regime.
Il complesso crogiolo di persone di diversa provenienza si era stemperato in
una popolazione coesa dal punto di vista amministrativo ed economico, culturale
e sociale. Era sorta davvero una comunità nuova capace di scrivere la propria
storia.
[1]
Per lungo tempo la bibliografia su Pachino è stata poverissima. Il primo libro
organico sulla storia e la cultura del nostro paese fu quello di mons. Simone Sultano, Pachino e i suoi dintorni
- Premiata Tipografia Zammit - Noto 1940, riedito a Pachino nel 1968; a questo
volume, ricco di notizie e di spunti di vario genere, hanno attinto numerosi
altri storici e raccoglitori di usi e tradizioni del nostro paese. Il libro,
seppure condizionato dalla retorica del tempo, si fa apprezzare per la buona
ricerca documentaria. Dopo un lunghissimo silenzio e dopo innumerevoli fatiche
da parte dell’autore spuntano, negli anni settanta, i due libretti ciclostilati
in proprio di Pasquale Figura: Pachino:
La Vendemmia e Veduta da Poggio San Gaetano, edito nel 1977; Pachino su Poggio Scibini del 1979.
Soprattutto nel secondo si tenta una ricostruzione storica della nascita del
nostro paese, corredata di note storiche interessanti a cui attingeranno gli
studiosi successivi. Ci sono poi i pregevoli lavori, di stampo archeologico, di
Salvatore Ciancio - Gli abitanti del Promontorio di Pachino - Noto 1972, e di Emanuele Umberto Muscova che ha
destinato al nostro paese quattro pregevoli opere: Promontorio di Pachino - dalla cultura paleolitica superiore ai
nostri giorni - edito dal Comune di Pachino nel 1987; Promontorium Pachyni - preistoria e storia - edito dalla Cassa
Rurale ed Artigiana di Pachino nel 1988; Pachino sul colle Scibini,
approfondita ricerca storica sull’ambiente pachinese, dalla fondazione della
città ad oggi, edito dal Comune di Pachino nel 1990; Pachum Phoenicium - Gli insediamenti umani nel territorio
pachinese dalla preistoria al paleocristianesimo
- pubblicato nel 1994 per conto del Comune di Pachino - Assessorato ai Beni
Culturali. Nel 1993 viene pubblicato, a cura di Maria Bugliarisi Di Maio, un famoso manoscritto di Vincenzo Curcio, Storia di Pachino, a
oltre sessant’anni dalla sua originaria stesura. A questo manoscritto, che
indubbiamente rappresenta la prima ricerca storica su Pachino, hanno attinto un
po’ tutti, dal Sultano in poi. Curcio fu un bravo maestro di scuola e proprio
in questo suo lavoro ci lascia stupefacenti testimonianze del suo metodo
didattico. Inoltre, attraverso i compiti degli alunni e le sue giornaliere
notazioni in classe ricostruisce uno spaccato vivo e palpitante della Pachino
degli anni ‘20. Un discorso a parte meriterebbe il bel libro di Giuseppe Drago su Gli Starrabba Di Rudinì - fondatori e signori di Pachino - Flaccavento editore Siracusa
1996, pubblicato con il sostegno della Banca di Credito Cooperativo di Pachino.
E’ questa la più completa, analitica e puntigliosa ricerca non solo sulla
nobile famiglia degli Starrabba ma sulle origini e i primi insediamenti urbani
pachinesi. Particolare riferimento viene fatto alla situazione agricola.
L’accurata e ricchissima documentazione su cui poggia tutta l’impalcatura del
libro lo rende fonte di ricerca e di studio per future opere e certamente
quanto di più esaustivo sia stato scritto sul nostro paese.
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