mercoledì 13 aprile 2022


 

LA DONNA DELLO SBARCADERO 

Scivolava lentamente l’antica ed usurata barca di fattura siracusana che conduceva i pochi passeggeri dal piazzale delle poste allo sbarcadero di porto Lachio sotto i lenti colpi del consumato remo del vecchio pescatore che tutti chiamavano ‘zu Natali”.

Chi saliva su quella barca per andare al mercato generale o “a duana”, come lo chiamavano i vecchi pensionati e le massaie siracusane, non doveva avere fretta.

Tutti sapevano che u ‘zu Natali” accarezzava il mare e parlava con la barca che aveva condiviso con lui i sogni e i dolori di una lunga vita passata a solcare il mare con amore e rispetto.

Essere in barca con lui era come sfogliare una lunga enciclopedia dedicata al mare, alla sua vita ed ai personaggi che gli avevano fatto contorno.

Molti di loro erano ancora abbarbicati ai remi delle altre barche che anch’esse solcavano le acque di quello che fu una volta il porto marmoreo dei romani e che ormai tutti individuavano come quello dello sbarcadero.

La melma e le erbacce avevano sostituito i lunghi lastroni del vecchio marmo di una antica Siracusa che amava la forza e la bellezza ed era da tutti rispettata.

Nel loro giornaliero andirivieni, in quelle poche centinaia di metri di ogni corsa, i vecchi marinai si incrociavano e si salutavano più volte scambiandosi anche parole di scherno o notizie sul tempo, sulla corsa o sui fatti giornalieri.

Spesso, non essendoci molto da fare per i giovani di quella Siracusa degli inizi anni sessanta, soprattutto se erano giornate senza scuola ed impegni, prendevo la barca dello ‘zu Natali” per una traversata di piacere rilassante e gioiosa inebriata dall’odore del mare.

Si scivolava lentamente sull’acqua appiattita senza onde perchè scossa soltanto dal fendere del remo.

I vecchi pensionati parlavano del tempo, dei loro ricordi di gioventù, delle tasse, delle cose che a loro giudizio non erano state fatte, ma soprattutto la loro conversazione si concentrava sulla pensione troppo bassa che non li faceva campare e quel Governo ladro che aveva l’unico scopo di fottere la povera gente.

Ma si potevano anche acquisire informazioni su dove si poteva comprare il pesce fresco, il pane buono e casareccio, il vino senza acqua aggiunta e l’immancabile piccante argomento pieno di particolari inediti di donne leggere ed uomini cornuti.

La Siracusa degli inizi anni sessanta era ancora concentrata sull’isolotto di Ortigia che tutti chiamavano “u scogghiu” ed in poche fasce di case nella zona della vecchia borgata, dove la via delle passeggiate era quella denominata in onore della battaglia del Piave della prima guerra mondiale.

Tutt’intorno le vecchie case sorte nel periodo fascista con l’interramento della spiaggia e la copertura rattoppata dei corsi d’acqua che dalle zone alte, dopo avere percorso decine di chilometri dalla loro partenza dagli iblei, si riversavano sul tratto di mare di fronte la vecchia Ortigia.                                                         

 Spesso durante il periodo delle piogge e con il mare mosso si allagava tutto perché l’acqua salata entrava nelle fogne e fuoriusciva dai tombini.

Un perenne odore maleodorante impregnava tutta l’area dello sbarcadero e dell’arsenale greco perché un vecchio tubo disteso su piccoli piloni di cemento riversava in mare la pubblica fogna a qualche centinaio di metri dal porto piccolo.

La zona dove adesso vi è il parco naturale di Akradina, sotto gli impianti della cittadella dello sport, era un largo spiazzo da campagna abbandonata che tutti chiamavano “Testa o Re”.

Nei periodi delle gite di Pasqua o Ascensione, veniva riempito di famiglie festanti che si facevano la scampagnata fuori porta, così come lo spiazzo dove sorge il santuario della Madonna delle lacrime serviva per dare calci al pallone.

Non si trovava una stanza da affittare nemmeno a peso d’oro perché il fenomeno dell’industrializzazione sempre crescente, con migliaia di posti di lavoro disponibili, aveva attirato a Siracusa persone da tutta la Sicilia ed anche dal “continente”.

Quelle poche case esistenti rimasero un miraggio di molti in attesa dell’urbanizzazione selvaggia attraverso la quale muratori di campagna dei paesi della provincia, si trasformarono in imprenditori e si arricchirono.

Assieme a loro molti politicanti, dando vita alla nuova classe borghese cittadina anche se mai accolta con simpatia dalla consolidata classe dominante siracusana fatta di nobili decaduti e di borghesi post guerra.

Spesso nei contratti di locazione insisteva la clausola che gli affittanti dovevano dichiarare di non avere figli per evitare che l’immobile, controllato continuamente dal proprietario per difenderne l’integrità anche se dato in affitto, subisse danni.

Non furono in pochi a sottoscrivere quell’impegno anche se sapevano di non poterlo onorare e spesso, sotto lo sguardo vigile del proprietario, facevano entrare in casa i figli nascosti nei bauli della propria povera roba che portavano dai luoghi di provenienza in quella città di Archimede che era diventata il nuovo Eldorado.

Anche il vecchio dialetto del “siracusano do scogghiu “, come venivano individuati gli ortigiani doc, faceva sempre più fatica ad emergere dai tanti dialetti che si potevano sentire in ogni angolo della città provenienti anche dai più remoti paesini della Sicilia.

Mentre l’onda spingeva lentamente quella barca imbalsamata sulla leggera schiuma provocata al contatto con il verde remo che fendeva l’acqua con i colori della siracusana Lucia, il mio sguardo di passeggero distratto e pensieroso, si posò su una lontana sembianza di donna.

Come la famosa Sirenetta, la vedevo seduta su una delle tre colonnine di marmo modicano che delimitava la zona dello sbarco dei passeggeri dal mare nel tentativo di evitare che qualcuno potesse finire la sua corsa nelle acque dello sbarcadero.

Mi sembrò subito un volto conosciuto quello della donna, quasi appollaiata sulla colonna centrale, che dava l’impressione di portare negli occhi una grande tristezza e un’aria sperduta come se vedesse quel cotesto per la prima volta ed in esso si smarrisse.                                                         

 Eppure non riuscivo a dare una rispondenza temporale ed una motivazione per cui quel volto e quegli occhi mi sembrassero così familiari da non farmi più pensare ad altro che a concentrarmi per cercare di ricordare e capire.

Un pò per timidezza ed un pò per potere osservare meglio senza essere visto, mi fermai vicino al casello della ferrovia che attraversava quelle case periferiche da cui potevo osservare ogni movimento sullo spiazzale dello sbarcadero.

Ogni volta che accanto alla donna sfilavano i passeggeri che salivano o scendevano dalle barche lei accorciava la gonna con il movimento delle gambe come se volesse sedersi meglio sulla colonnina lasciando scoperta una parte di sé.

Gli occhi gli si riempivano di una ammaliante dolcezza che cedeva però subito il posto alla tristezza dopo ogni flusso di quelle sagome veloci di persone indaffarate.

Ogni tanto uno sguardo fuggevole di uomini con le mogli al braccio copriva il suo corpo e l’attenzione di qualche ragazzo apparentemente distratto si faceva sempre più prossima ed interessata.

Ma quel viso e quello sguardo mi dicevano sempre più che ci eravamo incontrati e strizzavo la memoria per fare uscire il giusto ricordo fino a che un veloce fotogramma non si trasformò in un film.

Era proprio lei.

La ragazza biondina figlia dell’acquaiolo del mio paese che con le trecce, la gonna rattoppata e le gambe penzolanti dal carro sporco, cantava canzoni della tradizione popolare per rendere meno noiose le ore trascorse ad attraversare le strade polverose del paese.

Il padre trasportava otri d’acqua per le famiglie che glieli richiedevano per riempire grandi e vecchie giare di terracotta.

Della possibilità di avere un acquedotto comunale nessuno ne aveva mai sentito parlare fra quelle case del paese appollaiate su tre collinette dove, l’odore della cottura della verdura selvatica e dei legumi dei terreni più aridi non adatti al vino, sembrava coprire la miseria che imperava da generazioni.

“Luisella pigghia i sordi “era la rauca voce del padre che faceva saltare la ragazzina dal carro per porgere la mano alla contadina che aveva chiesto una caputa d’acqua e doveva pagare con le poche sgualcite lire che teneva arrotolate strette all’interno dello stringipetto per la paura di perderle o farsele rubare.

La ragazzina raccoglieva quel piccolo tesoro come si trattasse di una reliquia importante, ma già sapeva che sarebbe finito nella tasca del proprietario dell’unica osteria del paese che il padre frequentava tutte le sere, fino ad essere posseduto dai fumi dell’alcool e riportato a casa proprio da Luisella.

Era un compito che svolgeva diligentemente tutte le sere anche se, durante il tragitto dall’osteria a casa le sue piccole guance diventavano rosse dagli schiaffi che il padre non le lesinava.

Era cresciuta prima degli altri coetanei quella gracile e bella bambina che certamente non aveva di che gioire dello squarcio di vita che il Signore le aveva già riservato.                                                          

 Un giorno sparì dal paese e non se ne seppe più niente, e a noi bambini mancò molto quel gioioso passaggio del carro dell’acqua che faceva parte della coreografia dei nostri giuochi e quella piccola bambina bionda che era inconsapevolmente diventata una nostra compagna di strada.

Si parlò della morte del padre e della miseria della famiglia, così come si diffuse la voce che la lontana “Merica” l’aveva accolta nel proprio territorio.

Passarono molti anni e una casuzza della strada del basalatu accolse Luisella che, nel frattempo, era diventata donna, ed alla bellezza aveva aggiunto un’affascinante fattezza femminile che avvolgeva in abiti dediti più alla miseria che al lusso.

Le solite comari che trascorrono le giornate a farsi i fatti degli altri, raccontarono con dovizia di particolari, l’intervallo di vita trascorso fra la partenza ed il ritorno al proprio paese.

Le altre persone che ascoltavano il racconto facevano eco alle loro conclusioni, in modo corale, con la parola dialettale “mischina”.

“Mischina”, racchiudeva in sè le pene patite da quell’angelo mai sbocciato, che l’aveva visto sposare un uomo molto più grande di lei con lo stesso amore per il vino del padre, e che sperperava i dollari americani fra vizi e donne, lasciando Luisella sempre nel suo perenne stato di miseria.

Nel basalatu non aveva soldi né pane per sfamarsi e faceva ogni tanto la criata per dare qualcosa da mangiare ai quattro figli che ricordavano il soggiorno mericano accanto a quell’uomo dal forte odore di vino.

Ma aveva una cosa dove madre Natura non era stata misera con lei e le aveva concesso con generosità.

La bellezza e le sue fattezze che con timidezza cercava di fare apprezzare, seduta su quella colonna dello sbarcadero, a qualche passante distratto o in compagnia che la degnava solo di uno sguardo accattivante ma non interessato.

Trascorsero decine di minuti ed alla colonna di finto marmo che sorreggeva il suo corpo, fece pariglia la robusta sembianza di un uomo che si stagliò davanti a lei quasi a volerle togliere anche quel tiepido raggio di sole che, colpendola, la rendeva ancora più radiosa.

Aveva le braccia tatuate con i pupi che solevano stamparsi coloro che avevano sostato nelle patrie galere ed un grosso anello al dito faceva da pariglia ad una collana che, come una catena galeotta, le scendeva dal collo.

La prese con un braccio, scambiò qualche breve parola e la spinse dentro una macchina dove altri due amici l’accolsero schiamazzando.

Dal finestrino si vide per un po’ voltarsi con lo sguardo verso lo sbarcadero, guardando il mare solcato dalle barche lente che lo fendevano con remi e che, come Luisella, avrebbero potuto spingere la barca della vita verso lidi d’amore, ma erano stati destinati a vivere ed invecchiare in un mare melmoso stancamente solcato, sotto la flebile forza delle braccia do “zu Natali”, che lentamente aspettava la fine del suo vivere di misero pescatore.

                                                                                           Pippo Bufardeci

 

 

 

 

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