Scivolava
lentamente l’antica ed usurata barca di fattura siracusana che conduceva i
pochi passeggeri dal piazzale delle poste allo sbarcadero di porto Lachio sotto
i lenti colpi del consumato remo del vecchio pescatore che tutti chiamavano ‘zu
Natali”.
Chi
saliva su quella barca per andare al mercato generale o “a duana”, come lo
chiamavano i vecchi pensionati e le massaie siracusane, non doveva avere fretta.
Tutti
sapevano che u ‘zu Natali” accarezzava il mare e parlava con la barca che aveva
condiviso con lui i sogni e i dolori di una lunga vita passata a solcare il
mare con amore e rispetto.
Essere
in barca con lui era come sfogliare una lunga enciclopedia dedicata al mare,
alla sua vita ed ai personaggi che gli avevano fatto contorno.
Molti
di loro erano ancora abbarbicati ai remi delle altre barche che anch’esse
solcavano le acque di quello che fu una volta il porto marmoreo dei romani e
che ormai tutti individuavano come quello dello sbarcadero.
La
melma e le erbacce avevano sostituito i lunghi lastroni del vecchio marmo di
una antica Siracusa che amava la forza e la bellezza ed era da tutti rispettata.
Nel
loro giornaliero andirivieni, in quelle poche centinaia di metri di ogni corsa,
i vecchi marinai si incrociavano e si salutavano più volte scambiandosi anche
parole di scherno o notizie sul tempo, sulla corsa o sui fatti giornalieri.
Spesso,
non essendoci molto da fare per i giovani di quella Siracusa degli inizi anni
sessanta, soprattutto se erano giornate senza scuola ed impegni, prendevo la
barca dello ‘zu Natali” per una traversata di piacere rilassante e gioiosa
inebriata dall’odore del mare.
Si
scivolava lentamente sull’acqua appiattita senza onde perchè scossa soltanto
dal fendere del remo.
I
vecchi pensionati parlavano del tempo, dei loro ricordi di gioventù, delle
tasse, delle cose che a loro giudizio non erano state fatte, ma soprattutto la
loro conversazione si concentrava sulla pensione troppo bassa che non li faceva
campare e quel Governo ladro che aveva l’unico scopo di fottere la povera
gente.
Ma
si potevano anche acquisire informazioni su dove si poteva comprare il pesce
fresco, il pane buono e casareccio, il vino senza acqua aggiunta e
l’immancabile piccante argomento pieno di particolari inediti di donne leggere
ed uomini cornuti.
Tutt’intorno le vecchie case sorte nel periodo fascista con l’interramento della spiaggia e la copertura rattoppata dei corsi d’acqua che dalle zone alte, dopo avere percorso decine di chilometri dalla loro partenza dagli iblei, si riversavano sul tratto di mare di fronte la vecchia Ortigia.
Un
perenne odore maleodorante impregnava tutta l’area dello sbarcadero e
dell’arsenale greco perché un vecchio tubo disteso su piccoli piloni di cemento
riversava in mare la pubblica fogna a qualche centinaio di metri dal porto
piccolo.
La
zona dove adesso vi è il parco naturale di Akradina, sotto gli impianti della
cittadella dello sport, era un largo spiazzo da campagna abbandonata che tutti
chiamavano “Testa o Re”.
Nei
periodi delle gite di Pasqua o Ascensione, veniva riempito di famiglie festanti
che si facevano la scampagnata fuori porta, così come lo spiazzo dove sorge il
santuario della Madonna delle lacrime serviva per dare calci al pallone.
Non
si trovava una stanza da affittare nemmeno a peso d’oro perché il fenomeno
dell’industrializzazione sempre crescente, con migliaia di posti di lavoro
disponibili, aveva attirato a Siracusa persone da tutta
Quelle
poche case esistenti rimasero un miraggio di molti in attesa
dell’urbanizzazione selvaggia attraverso la quale muratori di campagna dei
paesi della provincia, si trasformarono in imprenditori e si arricchirono.
Assieme
a loro molti politicanti, dando vita alla nuova classe borghese cittadina anche
se mai accolta con simpatia dalla consolidata classe dominante siracusana fatta
di nobili decaduti e di borghesi post guerra.
Spesso
nei contratti di locazione insisteva la clausola che gli affittanti dovevano
dichiarare di non avere figli per evitare che l’immobile, controllato
continuamente dal proprietario per difenderne l’integrità anche se dato in
affitto, subisse danni.
Non
furono in pochi a sottoscrivere quell’impegno anche se sapevano di non poterlo
onorare e spesso, sotto lo sguardo vigile del proprietario, facevano entrare in
casa i figli nascosti nei bauli della propria povera roba che portavano dai
luoghi di provenienza in quella città di Archimede che era diventata il nuovo
Eldorado.
Anche
il vecchio dialetto del “siracusano do scogghiu “, come venivano individuati
gli ortigiani doc, faceva sempre più fatica ad emergere dai tanti dialetti che
si potevano sentire in ogni angolo della città provenienti anche dai più remoti
paesini della Sicilia.
Mentre
l’onda spingeva lentamente quella barca imbalsamata sulla leggera schiuma
provocata al contatto con il verde remo che fendeva l’acqua con i colori della
siracusana Lucia, il mio sguardo di passeggero distratto e pensieroso, si posò
su una lontana sembianza di donna.
Come
la famosa Sirenetta, la vedevo seduta su una delle tre colonnine di marmo modicano
che delimitava la zona dello sbarco dei passeggeri dal mare nel tentativo di
evitare che qualcuno potesse finire la sua corsa nelle acque dello sbarcadero.
Mi sembrò subito un volto conosciuto quello della donna, quasi appollaiata sulla colonna centrale, che dava l’impressione di portare negli occhi una grande tristezza e un’aria sperduta come se vedesse quel cotesto per la prima volta ed in esso si smarrisse.
Un
pò per timidezza ed un pò per potere osservare meglio senza essere visto, mi
fermai vicino al casello della ferrovia che attraversava quelle case
periferiche da cui potevo osservare ogni movimento sullo spiazzale dello
sbarcadero.
Ogni
volta che accanto alla donna sfilavano i passeggeri che salivano o scendevano
dalle barche lei accorciava la gonna con il movimento delle gambe come se
volesse sedersi meglio sulla colonnina lasciando scoperta una parte di sé.
Gli
occhi gli si riempivano di una ammaliante dolcezza che cedeva però subito il
posto alla tristezza dopo ogni flusso di quelle sagome veloci di persone indaffarate.
Ogni
tanto uno sguardo fuggevole di uomini con le mogli al braccio copriva il suo
corpo e l’attenzione di qualche ragazzo apparentemente distratto si faceva
sempre più prossima ed interessata.
Ma
quel viso e quello sguardo mi dicevano sempre più che ci eravamo incontrati e
strizzavo la memoria per fare uscire il giusto ricordo fino a che un veloce
fotogramma non si trasformò in un film.
Era
proprio lei.
La
ragazza biondina figlia dell’acquaiolo del mio paese che con le trecce, la
gonna rattoppata e le gambe penzolanti dal carro sporco, cantava canzoni della
tradizione popolare per rendere meno noiose le ore trascorse ad attraversare le
strade polverose del paese.
Il
padre trasportava otri d’acqua per le famiglie che glieli richiedevano per
riempire grandi e vecchie giare di terracotta.
Della
possibilità di avere un acquedotto comunale nessuno ne aveva mai sentito
parlare fra quelle case del paese appollaiate su tre collinette dove, l’odore
della cottura della verdura selvatica e dei legumi dei terreni più aridi non
adatti al vino, sembrava coprire la miseria che imperava da generazioni.
“Luisella
pigghia i sordi “era la rauca voce del padre che faceva saltare la ragazzina
dal carro per porgere la mano alla contadina che aveva chiesto una caputa d’acqua e doveva pagare con le
poche sgualcite lire che teneva arrotolate strette all’interno dello stringipetto per la paura di perderle o
farsele rubare.
La
ragazzina raccoglieva quel piccolo tesoro come si trattasse di una reliquia
importante, ma già sapeva che sarebbe finito nella tasca del proprietario dell’unica
osteria del paese che il padre frequentava tutte le sere, fino ad essere
posseduto dai fumi dell’alcool e riportato a casa proprio da Luisella.
Era
un compito che svolgeva diligentemente tutte le sere anche se, durante il
tragitto dall’osteria a casa le sue piccole guance diventavano rosse dagli
schiaffi che il padre non le lesinava.
Era cresciuta prima degli altri coetanei quella gracile e bella bambina che certamente non aveva di che gioire dello squarcio di vita che il Signore le aveva già riservato.
Si
parlò della morte del padre e della miseria della famiglia, così come si
diffuse la voce che la lontana “Merica”
l’aveva accolta nel proprio territorio.
Passarono
molti anni e una casuzza della strada del basalatu accolse Luisella che, nel
frattempo, era diventata donna, ed alla bellezza aveva aggiunto un’affascinante
fattezza femminile che avvolgeva in abiti dediti più alla miseria che al lusso.
Le
solite comari che trascorrono le giornate a farsi i fatti degli altri,
raccontarono con dovizia di particolari, l’intervallo di vita trascorso fra la
partenza ed il ritorno al proprio paese.
Le
altre persone che ascoltavano il racconto facevano eco alle loro conclusioni,
in modo corale, con la parola dialettale “mischina”.
“Mischina”,
racchiudeva in sè le pene patite da quell’angelo mai sbocciato, che l’aveva
visto sposare un uomo molto più grande di lei con lo stesso amore per il vino
del padre, e che sperperava i dollari americani fra vizi e donne, lasciando
Luisella sempre nel suo perenne stato di miseria.
Nel
basalatu non aveva soldi né pane per sfamarsi e faceva ogni tanto la criata per
dare qualcosa da mangiare ai quattro figli che ricordavano il soggiorno
mericano accanto a quell’uomo dal forte odore di vino.
Ma
aveva una cosa dove madre Natura non era stata misera con lei e le aveva
concesso con generosità.
La
bellezza e le sue fattezze che con timidezza cercava di fare apprezzare, seduta
su quella colonna dello sbarcadero, a qualche passante distratto o in compagnia
che la degnava solo di uno sguardo accattivante ma non interessato.
Trascorsero
decine di minuti ed alla colonna di finto marmo che sorreggeva il suo corpo,
fece pariglia la robusta sembianza di un uomo che si stagliò davanti a lei
quasi a volerle togliere anche quel tiepido raggio di sole che, colpendola, la rendeva
ancora più radiosa.
Aveva
le braccia tatuate con i pupi che solevano stamparsi coloro che avevano sostato
nelle patrie galere ed un grosso anello al dito faceva da pariglia ad una
collana che, come una catena galeotta, le scendeva dal collo.
La
prese con un braccio, scambiò qualche breve parola e la spinse dentro una
macchina dove altri due amici l’accolsero schiamazzando.
Dal
finestrino si vide per un po’ voltarsi con lo sguardo verso lo sbarcadero,
guardando il mare solcato dalle barche lente che lo fendevano con remi e che,
come Luisella, avrebbero potuto spingere la barca della vita verso lidi
d’amore, ma erano stati destinati a vivere ed invecchiare in un mare melmoso
stancamente solcato, sotto la flebile forza delle braccia do “zu Natali”, che lentamente
aspettava la fine del suo vivere di misero pescatore.
Pippo Bufardeci
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