martedì 16 febbraio 2010

LA LUMINARIA DI SAN GIUSEPPE




Gli ultimi tizzoni cercavano ancora di sopravvivere alla loro lenta agonia e le cipolle coperte dalla calda cenere arrivavano lentamente al loro punto di cottura e noi, bambini presi dal fuoco della luminaria e dalla esaltazione di una giornata diversa, continuavamo a goderci la lenta fine di quel fuoco di festa che aveva arso ardentemente fraschi, toppi e legna e cianfrusaglie per tutta la serata.
I preparativi erano già iniziati una settimana prima del grande evento che portava l'attesa data del diciannove marzo e la gioia della luminaria di San Giuseppe che, come ogni anno, si organizzava in ogni angolo del paese dentro i grandi cortili o negli incroci delle strade più larghe.
Così come nei terreni non edificati o nelle Aie delle campagne al cospetto di qualche casa rurale abitata da quei pochi pachinesi che preferivano, od erano costretti per motivi di lavoro, a vivere in campagna piuttosto che godere del ritorno serale alla propria abitazione.
Gli "strazzainzola pachinisi", come venivano chiamati dagli abitanti degli altri paesi vicini per la loro tendenza a non coricarsi in campagna, così egoisti ed auto referenziali, avevano pochi momenti di condivisione della loro vita sociale con gli altri compaesani.
Fra questi momenti, quello della festa del Patriarca San Giuseppe, era uno dei più sentiti e si materializzava nella condivisione di quella massa di fasci di fraschi e di toppi accatastati che tutti chiamano Luminaria.
Ma questa condivisione non andava al di là del proprio cortile od, al massimo, del proprio quartiere Era conflittuale con tutti gli altri perchè bisognava dimostrare che la propria Luminaria era la più alta di tutte, che bruciava con fiamme più vive di tutte, che durava più a lungo di tutte.
Per giorni, sopratutto i bambini, avevano girato di casa in casa per prenotarsi l'assenso a consegnare la legna per la luminaria da parte degli abitanti del quartiere che tenevano accatastato il loro carburante naturale davanti l'uscio di casa od all'interno della carrittaria che evitava, nel periodo invernale, di assupparisi d'acqua e non essere subito pronto per cucinare o riscaldarsi nell'ampia tannura o nel forno del pane.
Molta della vita dei pachinesi degli anni cinquanta ruotava attorno ai magghiola ed ai toppi ed a loro era condizionata gran parte della sopravvivenza del nucleo familiare che, in caso contrario, aveva la sola via d'uscita dalla fame attraverso l'emigrazione in Europa od in America con speciale preferenza per il Venezuela, l'Argentina, gli Stati Uniti oppure, la più gettonata, il Canada.
Quando l'alberello della vite che in dialetto chiamavano i toppi o i tralci detti magghiola vedevano spuntare i primi grappoli d'uva, i contadini quasi accompagnavano giornalmente il crescere dell'infiorescenza e poi degli acini cercando di capire la quantità di mosto che avrebbe potuto produrre e la consistenza dell'unico reddito della famiglia che avrebbe permesso il pagamento dei debiti accumulati durante l'anno e di farne di nuovi per un altro anno di sopravvivenza familiare.
Il tutto se non arrivava una nottata di peronospora o di liata prodotta dal freddo improvviso che avrebbe bruciato la speranza del nuovo raccolto e mandato sul lastrico l'intera famiglia.
Nel caso di malannata dovuta alle malattie della vite ne godeva la Luminaria di San Giuseppe perchè erano di più i toppi estirpati per la sostituzione del vigneto ed i tralci che potevano finire bruciati assieme alle speranze di vita migliore da parte dei contadini sopratutto se erano semplici affittuari nel feudo del Barone o Marchese o Cavaliere di turno che possedeva le strisce di terra che i contadini chiamavano Lenza dal nome della lunga cordicella che serviva per delimitare i confini o sestare il terreno per stabilire dove piantare le nuove viti.
Quando tutto procedeva regolarmente ed il Signore era stato benevolo con i contadini, i magghiola venivano accatastati in fasci durante la potatura della vite che, di solito, avveniva nel mese di gennaio.
I contadini tagliavano le liane legnose fin quasi l'alberello e lasciavano, a secondo del tipo di vitigno, un certo numero di spuntoni di tralci che venivano imbevuti di una soluzione di solfato di rame per proteggerlo dalle intemperie e dai parassiti e permettere, attorno ad essi, il nuovo germogliare della vite e, con essa,delle nuove speranze.
Finalmente il giorno prima della festa si andava, con carretti improvvisati,a recuperare il maggior numero di fasci di fraschi e legna godendo nel vedere crescere sempre più alta la luminaria del proprio quartiere.
Così come non si trascurava una sortita nelle luminarie degli altri per rendersi conto della quantità e dell'altezza della catasta avversaria.
Se nel quartiere si erano esaurite le disponibilità di legna per la luminaria ed essa sfigurava o non era all'altezza delle altre, allora si ricorreva all'estremo rimedio del furto.
Si escogitavano i trucchi più impensabili per fregare i fasci di frasche accatastate a ridosso dei muri delle case o quelli ancora sui carri in transito o, rimedio estremo, si organizzavano scorribande nelle campagne vicine.
Spesso finiva a corsa sfrenata per evitare l'inseguimento con bastoni branditi ed improperi da parte dei proprietari.
Ma alla fine mitigava tutto il giorno di festa e l'inizio dello scorrere della processione, facendoti sentire materialmente più vicini al Patriarca san Giuseppe e ti auto assolveva dagli eventuali peccati commessi nel nome della parte pagana di una devozione veramente sentita nei confronti del padre putativo di Gesù.
Questa devozione era anche suffragata dai numerosi compaesani, grandi e piccoli, che quel giorno festeggiavano il loro onomastico con il vestito della festa e con una tavola imbandita con maggiore accuratezza del solito.
Anche i meno abbienti potevano godere di un momento di pausa del loro stato di povertà alleviando la fame con il panuzzo di San Giuseppe che le famiglie più facoltose cocevano e regalavano direttamente nelle proprie case o attraverso ceste di vimini piene di pane che veniva distribuito all'interno della Chiesa.
Terminata la processione e la festa con l'ingresso del simulacro del Santo all'interno della sua nicchia di riposo per un altro anno ancora, si dava inizio al fuoco della luminaria attorno a cui si raccoglieva tutto il vicinato per parlare, riscaldarsi e mangiare.
Era festa lo scoppiettio della legna ardente che spesso durava per alcune ore fino a quando, diventando tizzoni accesi, non si utilizzava, attraverso lunghe canne o bastoni appuntiti, per scarfare ( bruciacchiare ) il pane duro ed essere mangiato caldo con l'aggiunta di olio, aglio , peperoncino ed abbondanti bicchieri di vino.
Si diffondeva un dolce odore di pane che veniva poi seguito da quello dei peperoni, olive o melanzane che venivano arrostiti da tutte le famiglie in una sorta di Tannura collettiva anche se ciascuno provvedeva a segnare e delimitare un proprio spazio per cucinare la roba da mangiare la sera o l'indomani in campagna od a casa.
Infine facevano la loro apparizione grosse teste di cipolle che venivano coperte dalla cenere calda per cuocere lentamente qualche volta assieme a qualche caddozzu di salsiccia.
Spesso, nonostante l'approssimarsi della primavera arrivava una sottile pioggerellina che i contadini chiamano " assuppa viddani " ( Inzuppa contadini ) perchè troppo leggera per aprire l'ombrello, ma troppo assidua per non assorbirla quasi a fior di pelle.
Allora si raccoglieva tutto di corsa per infilarsi dentro le case senza però dimenticare di prendere il mangiare sotto la cenere assieme ad una porzione di essa che, messa all'interno di ampi recipienti di terracotta dette conche, avrebbe continuato a scaldare durante la serata per coloro che avrebbero festeggiato in casa la festa con olive, salsiccia, pane arrostito e bicchieri divino per finire poi l’indomani dentro una cesta di vimini piena di biancheria lavata per renderla più pulita e bianca sotto sciacquii di acqua calda.

( Questo " RICORDO" è stato pubblicato sul numero di Febbraio della rivista ARCHE' )


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