Conoscere per ri-conoscersi, la coscienza collettiva di Pippo Bufardeci
Di Santina Giannone
L’opera narrativa di Pippo Bufardeci non è solo una sfida irriverente per l’ostinato scorrere del tempo, ma è anche lo spiraglio di una porta che si spalanca su una dimensione personale della coscienza collettiva.
Parlare di coscienza collettiva oggi è cosa assai rara e, ancora più, pericolosa.
Quasi sempre, infatti, una coscienza collettiva non può prescindere da una capacità di riconoscimento personale – di sé stessi, delle proprie aspettative e del proprio percorso –che nell’epoca dell’identità “liquida” di Bauman stenta a trovare le condizioni per sopravvivere. Ognuno non è più, semplicemente, ciò che è, bensì ciò che le condizioni esterne gli consentono di essere.
In questo contesto di straniamento, il narrare è una delle più alte forme di conoscenza.
L’esperienza, infatti, strumento primario della conoscenza umana, diventa in questo caso, il mezzo privilegiato per ri-conoscersi come appartenenti ad una storia corale di cui si rischia sempre più di perdere la memoria.
E’ già difficile oggi, per la generazione dei trentenni, raccogliere in maniera congrua il senso di una storia che a loro sfugge.
Sarà dunque impossibile, domani, soprattutto per la nuova generazione di fanciulli che si affaccia oggi al mondo, rappresentare coscientemente un ruolo attivo e propositivo senza la “riconoscenza” – termine qui utilizzato pienamente nella doppia valenza di “omaggio”, ma soprattutto di “consapevolezza di appartenenza”- a radici comuni.
Due i tramiti che spesso vengono utilizzati nel processo di gnosi umana: quello delle mappe concettuali, che tende a semplificare la realtà complessa per gruppi, e quello delle identità, che permette a ciascuno di entrare in contatto con l’essenza delle cose attraverso il reciproco riconoscimento.
Entrambi sono presenti nell’opera di Giuseppe Bufardeci, tessuti mirabilmente attraverso le trame del racconto, che tutto avvolge.
Il racconto diventa in questo caso la ramificazione attraverso cui si collegano le mappe “sentimentali” che formano il reticolato vero e proprio del libro. Mappe che riescono a tracciare un quadro organizzato, complesso ed allo stesso tempo completo di una umanità e di una Pachino come porzione di ricordi personali, ma anche di percezioni collettive.
Il racconto, poi, si fa veicolo per tratteggiare quei contenuti che formano l’identità condivisa, grazie ai valori comuni – quello delle chiacchiere sotto la luna di mezza estate davanti alla porta di casette patrie di ricordi, della sorpresa dinanzi alle prime trasmissioni della “scatola parlante”, del rumore del pallone che strascicava i suoi passi sul “basalatu”, della povera tavola che riusciva a sprigionare odori mai sopiti negli arcani meccanismi della memoria – territorio su cui diventa fecondo il meccanismo del mutuo riconoscimento.
Tutto ciò sarebbe difficilmente possibile, del resto, se questa sua capacità di sintesi storica e culturale non fosse accompagnata da una confezione elegante e raffinata, che però non scade mai nell’esperimento letterario alla ricerca del valore o del preziosismo ma, anzi, ritrova queste caratteristiche abbandonandosi alla semplicità più genuina, con effetti piacevoli per il lettore.
L’opera di ricostruzione sociale, dunque, va molto oltre e si ammanta del sapore di una ricostruzione storica, antropologica, intima che diventa un tributo ed un omaggio d’amore a Pachino e ai personaggi che ne popolano le sue memorie. Una città che l’autore, evidentemente, riconosce come sua partenza e, allo stesso tempo, meta d’arrivo del suo percorso.
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