VENT’ANNI FA
MORIVA LA DC MA NON HA LASCIATO EREDI
Editoriale di Claudio Sardo
Su l’Unità one - line
di oggi 18-01.2014
Era il 18 gennaio 1994. Mino Martinazzoli annunciò la
ri-fondazione del Partito popolare nella sede storica dell’Istituto Sturzo, a
Palazzo Baldassini. Poco distante, nell’hotel Minerva di Roma, la mattina di
quella stessa giornata, Pier Ferdinando Casini, Clemente Mastella e Francesco
D’Onofrio avevano dato vita al Ccd. La Democrazia cristiana – il partito che
aveva governato per quasi mezzo secolo, guidando la ricostruzione,
l’industrializzazione, la crescita democratica del Paese e poi anche la degenerazione
del potere – chiuse così i battenti. Era appena iniziata la campagna elettorale
che avrebbe portato Berlusconi al clamoroso successo. I referendum di Segni
avevano imposto la svolta maggioritaria. E il ciclone di Tangentopoli aveva
azzerato un’intera classe dirigente. Tuttavia entrambe le filiazioni della Dc,
benché in compitizione tra loro, andavano incontro alla sconfitta.
Sì, perché anche Casini, che pure accettò da subito la sfida
bipolare e uscì dalle urne del ’94 tra i vincitori, si ritrovò in posizione
subalterna rispetto a quel Berlusconi, che alla Dc aveva strappato tanti
elettori, ma della Dc non aveva neppure un cromosoma. La convivenza col
Cavaliere è durata dieci anni: poi la rottura ha ulteriormente marcato lo
spostamento a destra e la deriva populista di quella che fu la rappresentanza
dei «moderati» italiani.
La sconfitta più significativa fu comunque quella di Martinazzoli.
Lui, generosamente, interpretò la ri-costituzione del Ppi come «la terza fase»
del cattolicesimo democratico. Quella «terza fase» che Aldo Moro aveva
intravisto, auspicato, ma che venne travolta dalla mano assassina dei
brigatisti. Il moroteo Martinazzoli sperò che in quei primi anni Novanta dal
male della corruzione, dal blocco politico del Caf (Craxi-Andreotti-Forlani),
dalla crisi di sistema in cui il Paese era sprofondato dopo l’adesione al
trattato di Maastricht, potesse scattare una redenzione. I valori «buoni» della
Dc, in fondo, avevano vinto e l’economia sociale di mercato era anche per la
sinistra la sola difesa disponibile a fronte del liberismo arrembante: perché
da quelle radici non poteva nascere una nuova pianta? Peraltro, il ritorno al
Ppi era anche un riconoscimento della novità del Concilio: l’unità politica dei
credenti non aveva più un fondamento teologico e la proposta «popolare» si
sarebbe misurata con il pluralismo delle opzioni politiche nella stessa Chiesa.
Il maggioritario nostrano, però, prima ridusse il Ppi a una
terza forza minoritaria, poi lo costrinse alla scelta: o con i progressisti o
con Berlusconi. E il paradosso maggiore è che i cattolici che scelsero più
convintamente la sinistra, lo fecero accettando l’oblio della raffinata cultura
costituzionale della Dc, di quella capacità di usare le istituzioni per
includere, di concepire la mediazione come valore, di distinguere i poteri per
evitarne l’eccessiva verticalizzazione. La Dc non sarebbe stata se stessa senza
la filiera di giuristi che va da Costantino Mortati a Leopoldo Elia. Non
avrebbe avuto i tratti originali che abbiamo conosciuto con De Gasperi, con
Fanfani, con Moro e con lo stesso De Mita, il quale compì l’ultimo serio
tentativo di rigenerazione democristiana, pur dentro l’impraticabile blindatura
pentapartita.
La cultura costituzionale
La spinta forte dei cattolici democratici verso l’Ulivo fu
quella dei referendum e della «religione» del maggioritario. In fondo in Romano
Prodi c’era uno spirito di rottura non dissimile da quello di Mario Segni: la
percezione di una necessaria, radicale innovazione nelle forme della
competizione politica. Un bipolarismo quasi anglosassone, che non solo punisse
(giustamente) l’occupazione dei partiti nella società ma anche (discutibilmente)
la responsabilità dei partiti nella formazione dei governi e nella vita delle
istituzioni.
La Dc nasce, prospera, dà il meglio di sé nella società
divisa dalla Guerra fredda, nell’Italia che si emancipa dalla povertà, nel
sistema proporzionale, nella Chiesa che protegge l’unità politica dei credenti.
Le gabbie dei blocchi sociali le assegnano la rappresentanza dell’elettorato
conservatore e anti-comunista, ma la Dc tenta sempre di superare se stessa e si
concepisce sin dalle origini come «un centro che guarda a sinistra». Il no di
De Gasperi al Papa che gli chiedeva di aderire all’«operazione Sturzo» è un
vero e proprio atto fondativo della Dc, della sua laicità e della sua fedeltà
alla Costituzione. In fondo De Gasperi si rifiutò di fare cio che Berlusconi
fece quarant’anni dopo: un’alleanza senza confini a destra.
Ovviamente la Dc ebbe diversi sbandamenti a destra: negli
anni 50 fino alle pagine nere del governo Tambroni, poi ancora negli primi anni
70. La sua vita interna è stata piena di battaglie. Spesso decisive per il
Paese. Era il partito della nazione. Nel bene e nel male. E con Moro, che
rispettava il radicamento e la cultura nazionale del Pci, arrivò fino a tentare
un salto democratico non compatibile con i rapporti di forza internazionali del
tempo.
Oggi non sentiamo più alcuna nostalgia della Guerra fredda,
né dell’unità politica dei cattolici. La Dc non ha più ragion d’essere. Eppure
quella cultura personalista sedimentata nei corpi intermedi e nella
Costituzione, quel senso del limite della politica e dei poteri, quell’idea
delle istituzioni come mediazione (e non negazione) dei conflitti, sarebbe oggi
utile. Anche a sinistra. Se il Pd vuol essere il partito della ricostruzione
nazionale, non ha interesse ad azzerare la storia. Il nuovismo è effimero: la
parabola di Berlusconi l’ha dimostrato. Non è un caso che, seppure la Dc non
abbia veri eredi, i leader più giovani ed emergenti abbiano una discendenza
proprio da quella storia.
Trovo questo articolo molto interessante soprattutto perchè si tratta di un editoriale di un giornale, quale l'Unità che, rappresentando il partito comunista, ha sempre combattuto l'azione, la storia e la presenza della Democrazia Cristiana nel contesto politico nazionale.
Riconoscere che questo partito ha avuto un ruolo importante e determinante per l'Italia e per la politica italiana e evidenziando che la cultura del fare vera politica della Dc è ancora presente nei maggiori giovani esponenti politici nazionali, è un atto di verità storica da apprezzare. Come dire che la Storia mette sempre le cose al loro posto superando la propaganda, la menzogna e la convenienza. ( Pippo Bufardeci)
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