lunedì 5 aprile 2010

LE GITE COLLETTIVE DI PASQUA E ASCENSIONE




Il lunedì di Pasqua e l’Ascensione erano le feste privilegiate perche, anche i contadini più incalliti, non andavano in campagna per lavoro, ma per divertirsi.
Sopratuto se, queste ricorrenze, cadevano in un periodo dell’anno più prossimo alla tarda primavera che alla fine dell’inverno.
Le spiagge del nostro litorale vedevano i primi bagnanti tuffarsi nelle limpide acque dei Raneddi o della Spinazza così come del Cavittuni o della Citatedda.
Era un vociare di bambini, ragazzi, giovanotti e ragazze in età di fidanzamento che riempivano la fine sabbia delle spiagge di languide occhiate o sorrisi accennati per non dare nell’occhio degli astanti o dei genitori. In una specie di corteggiamento esplicito, ma ambiguo; voglioso, ma castigato; pieno di vita, ma represso nella logica delle caste usanze e della vergogna di ostentare tutto di fronte all’altra gente.
Si sperimentavano i giochi più impensati assieme alle lunghe corse lungo l’infinita spiaggia dei Raneddi che il sole di mezzogiorno rendeva di colore roseo con i granelli pagliuzze d’oro fra il luccichio del mare ed il verde delle dune coperte di viti o di grandi alberi di gelso.
I ragazzi facevano tuffi nell’acqua per attirare l’attenzione delle coetanee e le ragazze,con una cercata disattenzione, si inzuppavano le vesti d’acqua di mare che ne mostrava le forme con una pudicizia accattivante che le anziane si affannavano a coprire nel minor tempo possibile.
Sulla spiaggia, fra i più grandi, impazzava il gioco della mosca cieca perchè la bendatura degli occhi, a turno di un uomo e di una donna, permetteva carezze e toccate del corpo che, fuori dal gioco, sarebbero state foriere di ‘mmazzatini.
Dopo mezzogiorno l’area della striscia di terra fra il mare e le grandi paludi di contrada Raneddi si riempiva di profumo di peperoni e di pesce arrostito al fuoco della legna in bracieri improvvisati ove le donne si affannavano fra grossi peperoni e mulietti ( cefali ) di pantano appena pescati che, sminuzzati ed avvolti in olio di oliva, cipolla e peperoncino rosso abbondante, avrebbero trovato posto in piatti improvvisati di concave pale di fichidindia.
Prendere i grossi mulietti nei grandi canaloni delle paludi era il frutto di tecnica e di esperienza dei contadini della zona nei periodi invernali, ma diventava divertimento ed ilarità nella primavera inoltrata o nel periodo estivo quando l’acqua sotto il calore dei raggi solari diminuiva il suo volume.
Anche i ragazzi potevano entrare scalzi all’interno dei canaloni per rimestare la melma appiccicaticcia del fango sotto i piedi e gli schizzi d’acqua dei pesci che, con balzi felini, cercavano di sottrarsi al loro destino della pronta brace o di un cufino ( grande cesta di vimini o tavola ) preparato con molto sale per la lunga conservazione che arrivava anche fino al periodo della vendemmia ed oltre.
E’ noto che i mulietti, per vivere, hanno bisogno di molta acqua e della possibilità di lunghe corse e brevi fermate a pelo d’acqua perchè la perdita della velocità o la bassa acqua li rende vulnerabili e facilmente pescabili.
Ecco allora che i contadini ranedduoti ( di Raneddi) avevano trovato metodi arcaici, ma efficaci per la pesca dei mulietti.
Nel periodo di acqua alta andavano a pescare con due strisce di reti lunghe quanto la lunghezza della saia ( fossato ) legate ai lati a lunghe canne per renderle rigide e distese ed unite,alla base, da cordicelle in modo da formare una specie di grande e lineare portafoglio da una sponda all’altra.
Con questo rudimentale arnese da pesca ci si immergeva in acqua con due persone che tenevano ai lati la rete aperta fra il letto della saia ed un metro circa dal pelo d’acqua ed una terza persona immersa al centro che, con bastoni o piattelli di latta ,provocava rumore e confusione.
I pesci al sentire quel rumore e nel vedere un corpo estraneo dentro il loro habitat, si raggruppavano fra loro e correvano da un’estremità all’altra quasi impazziti.
. L’ombra della rete che segnalava l’ostacolo in acqua, li costringeva ad effettuare dei salti molto alti , impattando così nell’altra metà posta sulla linea del salto per fermare la loro corsa e scivolare lungo la rete che, chiusa velocemente a portafoglio, racchiudeva le abbondanti prede.
Quando l’acqua era invece molto più bassa e calda ai raggi del sole si vedeva la sagoma dei pesci filare a pelo di superficie e fermarsi ogni tanto per potere respirare prima di un’altra corsa.
Era a questo punto che, armati di grossi bastoni o di corpi contundenti improvvisati, che si assestava repentinamente un colpo alla sagoma del pesce che così galleggiava dopo pochi secondi pronto per essere custodito nei recipienti.
L’altro metodo più estemporaneo di tutti e difficile da spiegare agli amici che abitano in città e non hanno avuto mai il piacere di gustare le stranezze e le delizie della vita paesana e campagnola, era la pesca con i piedi.
Con poca acqua e, per dei più calda, diventa difficile per questi pesci respirare e la poltiglia che si forma nella saia, come in tutto il pantano prima di incominciare ad asciugarsi fino a diventare dura e percorribile anche con mezzi pesanti, non permette idonei movimenti.
Camminando quindi sul fango si avvertiva, sotto i piedi, il movimento del pesce in agonia, ma ancora vivo e buono per la tavola,per cui bastava pressarlo con il piede per impedirne il movimento e abbassare la mano,per pescarlo con grande naturalezza e tranquillità.
Erano le piccole grandi soddisfazioni di chi non conosceva le vacanze nelle mete esotiche o le crociere nei mari del sud, ma all’ombra della logghia difronte ad una piccola casetta di campagna messa su con pietre di muro a secco e di canne e fraschi di carpitieddu per tetto.
Oppure dentro i pagghiari di liane ed erba essiccata in fasci legati gli uni agli altri su uno scheletro di rami di alberi di gelso che, senza saperlo ti davano, a due passi da casa, il sapore etnico dell’Africa senza pensare che, forse da grande, saresti andato a cercare questo nero continente per non essere da meno nel dimostrare il tuo amore per il turismo alternativo, naturale ,ecologico ed etnico.
Ampi bicchieri di vino nero accompagnavano quel sapore bruciacchiato e selvatico del pesce assieme al pane inzuppato di succo ed avvolto nei peperoni arrostiti.
Il vociare si espandeva da un luogo all’altro ed i gruppi, anche se distanti, facevano diventare la festa uno schiamazzo collettivo di suoni, musica e grida come solo i pachinesi sanno fare quando parlano fra loro anche sottovoce per superarsi nel farsi sentire e per attutire la forza del vento che impone spesso i suoi suoni e la sua voce in quel lembo di terra fra lo Jonio ed il Mediterraneo.
E spesso, nelle gite, non si poteva non accontentare questi due mari quasi come un rito pagano di esorcizzazione del loro scorrere e del loro avvolgersi con i desideri dei venti.
Così, secondo un’usanza consolidata,ci si scambiava le visite per cui se dei parenti erano venuti in un’altra occasione di festa, bisognava ricambiare e ci si spostava nel luogo ove anche loro festeggiavano con altri parenti ed altri amici.
Le carovane di vacanzieri erano quindi, quasi sempre, destinati ad accrescersi.
Si andava nella spiaggia del Cavittuni sulla costa fra Marzamemi e Portopalo ove nella bellissima insenatura di Muriedda ( Morghella), al riparo dalle folate del vento, si lavava e si stendeva nei ciuffi d’erba al sole la biancheria che doveva formare la dote per le nozze imminenti o ci si spostava fino allo scoglio a strapiombo sul mare dell’acque palummi. Quì piccoli gorgoglii d’acqua dolce sgorgono dal salato del mare per riempire caputi d’acqua per lavarsi e per bere nel ricordo delle navi e degli uomini che, millenni prima, avevano preceduto e compiuto gli stessi riti per le stesse esigenze anche senza la storicizzazione come il mito di Aretusa e d’Alfeo di siracusana leggenda.
Oppure ci si rotolava negli alti mucchi di alghe della zona Spinazza che il mare accumulava ed accumula ogni anno prima dei bagni estivi.
Ma la gita che più mi intrigava era quella legata alla visita di alcuni parenti che avevano un piccolo appezzamento di terreno in contrada Citatedda che adesso è parte integrante della riserva naturale di Vendicari.
Questo terreno aveva una particolare caratteristica in quanto custodiva un antico cimitero saraceno ancora intatto ed una chiesa anch’essa dello stesso periodo e che, a quei tempi, non aveva avuto alcun interessamento da parte della sovrintendenza al patrimonio culturale perchè, nel periodo post bellico, si dava più peso alla cottura che alla cultura.
Ammiravo l’interno della chiesa ancora con visibili affreschi religiosi e mosaici raffiguranti forme di rara bellezza che stridevano, abbassando gli occhi, con lo sterco degli asini legati alla mangiatoia ed al fumo della tannura che, assieme ad arnesi rurali e cianfrusaglie d’ogni genere, vi trovavano rifugio.
Degradando verso il mare, quasi come un piano inclinato che permette la vista dell’orizzonte dal quale forse quei guerrieri erano arrivati per trovare la morte nel suolo della nostra terra, larghi lastroni di pietra delimitavano l’ampiezza delle tombe che a decine risplendevano fra cipolle,ciuffi di cicoria, carciofi, lattuga ed ogni altra verdura che veniva semianta o germogliava spontaneamente, per la gioia dei contadini, negli stretti solchi di terra fra le tombe abbandonate.
Spesso per accontentare i curiosi, ed io ero fra questi, qualcuno fra i parenti presenti preparava il fesi (piccone ) e ci accompagnava verso le tombe. Su nostra indicazione scavava attorno ad essa o la scoperchiava per farci rinvenire qualcosa appartenuta a quei storici morti.
Ecco allora che dopo secoli di riposo veniva fuori un pezzo d’osso, un dente, una scheggia metallica coperta di terra oppure, se lo scavo era profondo, anche qualche teschio
I contadini improvvisati storici raccontavano di anelli e tesori rinvenuti, di battaglie consumate e vinte, di amori e di odi, di amici e nemici.
Aleggiava quasi lo spirito di novelli crociati che, nel vedere quei lembi di reliquia, si reincarnavano per rivincere i saraceni, o siracusani ed elorini i romani ed i cartaginesi in un mescolio di popoli e civiltà che, dallo scosceso terreno che calpestavamo, avevano proiettato il loro sguardo negli orizzonti e nei tramonti dell’azzurro del mare nostrum e riversato il rosso del loro sangue di guerrieri nella brulla terra e nella dorata sabbia.
Ma il vento dell’imbrunire e l’odore del sugo rosso con carne di maiale e salsiccia arrosto pronti in compagnia di piatti di pasta e carrateddi di vino ci riportava alle succulente pietanze ed ai piaceri della gita che volgeva al termine fra gli ultimi schiamazzi, i saluti e gli scroscianti baci che tutta la comitiva si dispensava nel momento del ritorno a casa.
Gli animali venivano nuovamente imbracati ai carri, si legavano le sedie con corde di vimini nelle spalliere dei carri per fare sedere le donne mentre i bambini si sedevano alla rinfusa sulle tavole del piano del carro e le prime coperte e gli scialletti coprivano chi incominciava a non sopportare la fresca ombra che accompagnava il calare della sera.
Lentamente i carri si avviavano verso casa nel solco di quel lungo peregrinare dell’abitudine giornaliera fuori di festa che riconduceva al duro lavoro dei campi e faceva scorrere pigramente una vita di stenti.


( Questo mio articolo è stato pubblicato nel numero di aprile della rivista culturale Archè in distribuzione gratuita nelle edicole di : Rosolini, Pachino, Modica, Pozzallo, Ispica, Noto. Chi desidera avere informazioni o diventare fan della rivista può cercarla su Facebook)

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